LIDO DI VENEZIA – Un signorile Michael Caine che indossa elegante, neanche fosse un’aristocratica dama inglese, una
favolosa parure carminio firmata Bulgari da 800.000 sterline proprio non ce l’aspettavamo. È la più curiosa scena gay dello stiloso, claustrofobico ed efficace thriller Sleuth (Pedinamento ma anche investigatore) di Kenneth Branagh, intrigante remake dell’ultimo film di Joseph L. Mankiewicz Gli insospettabili, datato 1972.
La sceneggiatura del rifacimento porta l’autorevole firma di Harold Pinter che ha aggiornato in chiave high-tech e sessualmente ambigua – nell’originale il sottotesto queer era solo accennato – la pièce originale di Anthony Schaffer. Recitato da due soli attori – i convincenti Michael Caine e Jude Law, il primo già presente nell’originale ma nel ruolo opposto che era di Laurence Olivier – è una sorta di gioco al massacro tra un ricchissimo e popolare giallista, Andrew Wyke (Caine), che abita in una villa d’epoca ma con arredamenti ultramoderni e gadget elettronici, videocontrollata da un’infinità di webcam dell’ultima generazione, e Milo Tindolini detto Tindle (Law), amante di sua moglie, un giovane attore di origini italiane. Per incassare un’assicurazione
miliardaria, Wyke gli propone di inscenare davanti a lui il furto del prezioso monile di cui parlavamo, nascosto in una cassaforte della magione. In realtà Wyke ha progettato un piano cervellotico per vendicarsi dell’uomo da cui però è anche attratto sessualmente, e l’incontro-scontro tra i due uomini si trasforma lentamente in una sorta di sadica seduzione senza esclusione di colpi che diventa anche una riflessione sulla creazione letteraria intesa come attività ludica fondata sulla magica miscela di realtà e finzione. Rapido e compatto (dura solo 86 minuti contro i 138 dell’originale), è un sofisticato esercizio di stile, algido ed affascinante, diviso in tre parti distinte come i set di una partita a tennis, rimarchevole soprattutto per le meravigliose interpretazioni dei due protagonisti. Uno scambio di battute in particolare ha scatenato l’ilarità del pubblico: «Strana gente gli italiani, la cultura non è il loro forte". "Però hanno un ottimo salame».
Sempre in concorso, è stato presentato il fluviale e irrisolto Se, Jie (Lust, Caution ossia Attenzione, lussuria) di Ang Lee che dopo il casto amore gay tra i cowboy di Brokeback Mountain si dà a un dilatato melò in costume di due ore e mezza – siamo nella Shangai anni ’40 occupata dai giapponesi – solleticando il pubblico con tre tardive scene di sesso hard etero (varie posizioni: missionaria, a forbice, ecc.) tra un potente politico e una giovane donna in realtà incaricata di farlo cadere nella trappola dei resistenti. La ricostruzione è accurata e sontuosa ma, a parte l’ultima mezz’ora, il pathos latita abbastanza e il rischio è ammirare più il contorno d’epoca puntellato dagli infiniti risciò che appassionarsi alla storia (e poi le partite di mah-jong sono davvero un po’ troppe). «Il cinema è una ricerca in se stessi – spiega Ang Lee – l’ambiguità che si crea tra uomo e donna mi piace e m’interessa in quanto tale, in chiave omosessuale o eterosessuale non importa».
Non convince affatto, invece, l’opera prima Michael Clayton di Tony Gilroy, intorcinato legal thriller con George Clooney avvocato azzeccagarbugli col vizio del gioco alle prese con una causa multimiliardaria contro una multinazionale agrochimica, la U-North, accusata di aver commercializzato un diserbante killer. Clooney appare per il 90% delle inquadrature – una manna per chi ama il divo americano – ma il suo personaggio resta psicologicamente solo abbozzato. Meglio la sempre brava Tilda Swinton, musa di Derek Jarman, nel ruolo del crudele superboss imperturbabile, ruolo che le calza a pennello. Ma vedere Tom Wilkinson che impazzisce e, durante una deposizione, si spoglia improvvisamente come in Full Monty è un’ingenuità che fa solo sorridere. Tediosello.
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