STUPRO DI MASSA PER NICOLE

A Cannes si urla allo scandalo e al capolavoro: "Dogville" è il nuovo film di Lars Von Trier, una crudelissima critica all'America e al consumismo con una insuperabile Kidman.

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CANNES – Cattivissimo Lars. Dall’alto del suo genio, il grande regista danese ha fatto il suo film choc. Ironicissimo e di una crudeltà infinita. Cannes è fortemente turbata dal noir estremo ‘Dogville‘ di Lars Von Trier, uno dei massimi e più premiati ‘metteurs en scène’ esistenti al mondo, creatore del movimento ‘Dogma’ (e sulla Croisette i critici parlano già di Post Dogma) fondato su dieci regole alla ricerca di un cinema più realista del vero su set artificiali, una specie di post Nouvelle Vague, capace di rinnovarsi continuamente facendo trilogie rivoluzionarie completamente diverse tra di loro, vincitore della Palma d’Oro nel 2000 con ‘Dancer in the Dark‘, capolavoro di fine millennio. Insomma, il nuovo Godard+Kubrick+?

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E ragazzi, qui c’è Nicole. Sì, sì, è proprio lei, e con pochi effetti speciali (diciamo un po’ di trucco). Splendida in un vestitino rosso con richiami colorati e collarino da cagnolina ubbidiente, non sa quello che la aspetta. Vedersi invece Lars con la radiosa moglie Bente, rilassato e incurante, fa venire qualche dubbio sulle paranoie che lo caratterizzano (e qui si trema per la Sars a tal punto che gli accreditati orientali sono decimati e negli hotel ci sono sempre più ‘no contact toilets’). Per la Nicole, invece, delirio da stadio, ma lei non ha occhi che per la sua immagine. Chi ci colpisce, invece, è il bellissimo Jean-Marc Barr, interprete de ‘Le onde del destino‘ e del gay ‘Marciando nel buio‘ di Massimo Spano, elegantissimo e fascinoso a fianco della brava produttrice Vibeke Windelov.

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Ed ecco materializzarsi Dogville, quieta cittadina delle Montagne Rocciose ricreata in studio inizialmente con strisce bianche sul pavimento con i nomi delle vie e qualche altro oggetto. Un giorno arriva lei, la misteriosa dark lady Grace, annunciata da una serie di spari e dall’abbaiare del cane Moses, in fuga chissà da chi o da cosa. La povera donna con stola di pelliccia si ritrova nella centrale Elm Street (la stessa di ‘Nightmare’) alla ricerca di un riparo. Tom, lo scrittore disturbato di Dogville, convince gli abitanti ad ospitarla e lei inizia a lavorare per tutta la comunità. C’è Ma Ginger, la proprietaria dell’unico negozio di Dogville che ha strane statuine in vetrina (un’inimitabile Lauren Bacall relegata in un ruolo di contorno poco significativo), la mamma Vera con uno stuolo di ragazzini e un marito introverso, la bella Liz, il dottore ipocondriaco, una ragazzina nera handicappata e uno strano tipo cieco (Ben Gazzara bravo come non mai).

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La povera Grace, apparentemente tutta bontà e sincerità, inizia a lavorare per loro ma piano piano i solidi equilibri della piccola comunità iniziano a franare e gli abitanti di Dogville iniziano a pretendere sempre di più dalla nuova arrivata. Ma i gangster in città, capeggiati dal potentissimo Big Man, sono in cerca di lei.

Ma perché Grace è fuggita? Che cosa cerca? E soprattutto, che cosa ha da nascondere? Partendo dai grandi classici del cinema americano come ‘Johnny Guitar’ e ‘La donna del bandito’, Von Trier fa un’operazione molto interessante adottando uno stile inusuale che mescola Brecht con l’avanguardia teatrale anni ’70 tipica delle produzioni della Royal Shakespeare Company come ‘Nicholas Nickleby’ (ha dichiarato che «gli manca il teatro in tv») e aggiungendo sofisticati effetti speciali che prendono vita piano piano per ricreare la struttura fisica e morale dell’imprevedibile Dogville dove le porte inizialmente non si vedono e non si sa fin dove gli occhi possono arrivare.

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E l’anima sentimentale del regista viene fuori nel gigantesco e spiazzante finale (ma il prefinale ha una leggera caduta perché troppo meccanico) che ha scatenato infiniti dibattiti fra i critici titillati da tanta provocazione intellettuale. Ed è sicuramente il film più politico di Von Trier, eccessivamente critico nel suo antiamericanismo, ma se lo si accetta come analisi radicale del consumismo (e non del capitalismo ‘tout court’) oppure lo si vede come uno strano gioco quasi perfetto tra il Cluedo, la dama di Bill e un giallo dalle sfumature arcobaleno, privo di ombre, la soddisfazione è immensa. Ma ‘Dogville’ è soprattutto bello da vedere grazie all’interpretazione davvero straordinaria di una Nicole Kidman che, modellata dallo sguardo vorace e attento del regista, raggiunge vette espressive davvero elevate, soprattutto quando riesce a perdere il controllo nei momenti giusti: nel film viene violentata da mezza città, sottoposta alle punizioni più indicibili come una reietta bastarda e pronta a vendicarsi senza alcuna pietà (la scena di stupro più impressionante, che ha raggelato l’intera platea, verrà probabilmente tagliata nelle copie destinate all’estero). Non sarà facile batterla nella lotta alla Palma ma la vittoria così recente dell’Oscar è un ‘atout’ non indifferente.

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Lars potrebbe ambire a quella della miglior regia, uno dei pochi premi che gli restano da vincere (oltre all’Academy Award che gli americani, sicuramente, non gli daranno presto). A cercare il pelo nell’uovo, Lars poteva fare il capolavoro di una carriera ma la decisione di fare una trilogia sulla storia americana (il secondo capitolo, ‘Manderlay‘ è già in preproduzione e dovrebbe avere come protagonista sempre la Kidman) forse l’ha frenato nel suo effluvio creativo e la complessità della storia (‘Dogville’ dura tre ore che, comunque, volano via) l’ha trattenuto dall’osare di più soprattutto nell’ultimo terzo del film, il più sorprendente e immaginifico.

Festa da urlo in una specie di grossa cuccia in un luogo segreto ma non troppo. Svelare di più sarebbe un omicidio, oppure, come direbbe il cane Moses: “Bau, bau, folks!”.

Applauditissimo.

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