E chi se lo aspettava? Il regista ‘finto macho’ Quentin Tarantino, maestro del pulp e apparentemente non filogay (ve lo ricordate lo stupro violentissimo in Pulp Fiction?), firma col geniale e verboso The Hateful Eight non solo il suo primo film queer ma un capolavoro ‘politicomosessuale’ – sebbene la tematica lgbt sia piuttosto celata dalla sua ironia sopraffina – attraverso un western diverso da tutti gli altri che rivoluziona i codici del genere con una scrittura vertiginosa quasi teatrale e claustrofobica per una sorta di Ombre Rosse ‘per un pegno di dollari’ in cui otto criminali si ritrovano dopo aver attraversato una bufera con una diligenza nel misterioso locale di Minnie per eliminarsi a vicenda in maniera machiavellica (la sceneggiatura è cerebrale e il film richiede molto impegno da parte dello spettatore anche per la lunghezza: due ore e 48 minuti).
Altro che saloon fumosi e sparatorie a raffica, qui la tensione è palpabile in ogni inquadratura, spiazza in continuazione chi guarda, c’è persino un tocco di Agatha Christie per una partita a scacchi bergmaniana: pare un gioco vezzoso e invece è una profonda riflessione sulle radici della violenza che ha portato alla pena di morte e al razzismo ormai radicato nella società americana – il film è ambientato qualche anno dopo la Guerra di Secessione americana (la cosiddetta Guerra Civile combattuta fra il 1861 e il 1865 fra gli Stati Uniti e Stati Confederati d’America). Tarantino ha dichiarato in una recente intervista al Telegraph: “Ho sempre sentito la bandiera sudista come una croce uncinata americana. E la gente sta cominciando a mettere in discussione cose come la statua di Beford Forrest – n.d.r.: generale confederato fondatore del Ku Klux Klan – nei parchi statunitensi”.
Sì, perché il vero protagonista è il boia nero interpretato da un magistrale Samuel L. Jackson, il tremendo Major Marquis Warren, che si ritrova su una diligenza trainata da cinque cavalli neri e uno bianco con il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) e la pericolosissima criminale Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh da Oscar, indemoniata come nemmeno Linda Blair ne L’Esorcista) che accompagna, ammanettata, nella cittadina di Red Rock per l’esecuzione. Incontrerà sulla lunga strada un Generale in pensione (Bruce Dern), uno scrittore silente (Michael Madsen), uno sceriffo scemo (Walton Goggins, belloccio), il misterioso Oswaldo Mobray (Tim Roth) e il tenutario Bob (Demian Bichir) la cui moglie pare sappia cucinare un ottimo ragù. Ma forse c’è qualche altro bastardo nascosto da qualche parte e voci incontrollate dicono che nel cast c’è quella supernova di Channing Tatum nel ruolo di Jody… Oltre ai tre morti già caricati sulla diligenza!
Lincoln frocio – lo sapevamo, non è certo una novità, ma qui il segreto della lettera fa semplicemente spanciare dalle risate – pompini gay nella neve (la scena più inattesa e visivamente folgorante: un uomo completamente nudo costretto a percorrere chilometri in una distesa bianca) e un amore gay sottinteso assolutamente sconvolgente. C’è persino un trio di pistolere butch forse streghe ma una di loro sicuramente abilissima a guidare una diligenza (è forse la prima lesbica in un western contemporaneo?).
Divertimento pulp survoltato ma con un tono intellettual-sofisticato alla Harold Pinter e a carburazione molto, molto lenta come quella caffettiera che di segreti ne ha più d’uno, certo, e genera sospetti e vendette a valanga.
Che spasso e che ardimento: Quentin Tarantino è uno dei massimi registi contemporanei e questo capolavoro in crescendo – magnifiche le musiche di Morricone che farebbero risorgere Sergio Leone – ci dimostra quanto sia progay e attento a combattere con la potente arma del cinema l’omofobia ancora imperante in molti stati americani nonostante il matrimonio lgbt sia una realtà in tutti gli Stati grazie all’illuminato Obama.
Conobbi Quentin all’Excelsior qualche anno fa a Venezia: all’inizio mi parve burbero, facendomi capire che non dovevo disturbarlo perché stava per incontrare alcuni giapponesi. Poi, dopo avergli rivelato che in un mio saggio sostenevo che la scena dello stupro gay di Pulp Fiction è una delle sequenze queer più violente mai realizzate, cambiò espressione dicendomi che ne avremmo parlato in altra sede. Aspetto il duello, Quentin. Tira fuori il pistolone.
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