Non si muore dal ridere ma ci si diverte, eccome. Dopo i successi planetari di In & Out e il parziale flop del remake camp La donna perfetta, il bravo regista Frank Oz (è suo quel gioiellino di La piccola bottega degli orrori, ricordiamo) è tornato in patria, l’Inghilterra, per girare all’interno dei celebri Ealing Studios Funeral Party, un’azzeccata commedia corale senza star hollywoodiane – «ci sono 13 personaggi: se uno di questi fosse stato interpretato da un nome di grido l’equilibrio sarebbe saltato» ha dichiarato Oz – incentrata su un compassato funerale nell’altrettanto compassata campagna inglese.
Classica situazione da fazzoletti umidi e percepibile afflizione, quindi. Ma anche terreno fertile per innestare un meccanismo comico irresistibile alla Il caro estinto – Funeral Party ha vinto il premio del pubblico al Festival di Locarno – capace di trasformare il mesto evento in una vera e propria farsa in cui verranno alla luce i problematici legami sentimentali di una famiglia discretamente disfunzionale: i due fratelli Daniel e Robert mal si sopportano, anche perché il primo non riesce a far pubblicare un manoscritto a cui tiene in maniera particolare mentre il secondo, egocentrico scrittore di fama, vive a New York in un superattico (e tutti si sorprendono con
disappunto perché non sarà Robert ma Daniel a leggere l’elogio funebre); la vedova Sandra è travolta dal dolore ma non perde occasione per ‘beccare’ la nuora Jane che non vede l’ora di andarsene dalla casa della suocera dove vive col frustrato marito Daniel di cui sopra; la cugina Marta vorrebbe far bella figura davanti al padre col fidanzato Simon ma quest’ultimo ingerisce per errore una pasticca di acido rinforzato alla mescalina e dà di matto tra allucinazioni e passeggiate sui tetti; Howard è un amico di Daniel ipocondriaco ossessionato da un’eruzione cutanea e costretto ad accompagnare insieme al rozzo Justin, innamorato di Martha, il burbero capofamiglia, zio Alfie, costretto su una sedia a rotelle.
Già dall’inizio, a causa di un’improvvida sostituzione di bare, si capisce che questo funerale è destinato ad andare storto. Ma la vera minaccia è lì alla cerimonia, ad altezza feretro, quel nano che nessuno conosce, pronto a ricattare Daniel perché non riveli un impronunciabile segreto sull’irreprensibile condotta morale dell’amato defunto. È la molla, l’elemento disturbatore che scatena una serie di catastrofici equivoci dall’anima molto queer – dopotutto non basta guardare alle pareti di uno studio per capire se chi lo utilizza è gay? – in cui si citano Davide e Gionata, penne nel sedere, persino oltraggiosi 69 omosessuali post mortem. Si ride, dicevamo, ma senza l’effetto cumulo della comicità slapstick che si avverte solo nel finale quanto piuttosto tramite azzeccate battute dall’humor sottile declinato ovviamente verso il dark, dette al momento giusto e nella scena giusta. Infatti, nonostante si ricorra persino a un raccapricciante tocco scat, il tutto riesce a mantenere una certa compostezza indubbiamente british che evita facili scivolate di cattivo gusto e scontate volgarità a buon mercato.
Il merito è soprattutto della calibrata sceneggiatura del trentaduenne Dean Craig e dell’affiatamento del cast, ottimamente diretto, in cui ritroviamo con piacere, nel ruolo di Robert, un invecchiato Rupert Graves, l’attraente guardiacaccia Alec Scudder nell’omocult di James Ivory Maurice.
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