Trionfa la passione lesbica: Palma d’Oro al magnifico ‘La vie d’Adèle’

Verdetti supergay a Cannes, dalla grande storia d'amore lesbica di Kechiche alla Queer Palm a L'inconnu du lac di Guiraudie. Due premi alla rivelazione Les Garcons et Guillaume à table.

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Vince il film lesbico – Erano vent’anni esatti, dal trionfo di Addio mia concubina, che un film a tematica queer non vinceva la Palma d’Oro. Il

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verdetto piuttosto equilibrato della giuria composta anche da Ang Lee e Nicole Kidman, presieduta da mister Hollywood Steven Spielberg, non poteva non premiare all’unanimità la vetta assoluta di un concorso d’alto livello, il magnifico La vie d’Adèle del regista franco tunisino Abdellatif Kechiche, vincitore anche dell’ambito premio Fipresci della critica internazionale. Verrà distribuito in Italia da Lucky Red probabilmente ad ottobre e senza censure. Un’opera d’arte straordinaria come la vita vera che ti cresce dentro e non ti lascia più, tre ore assolutamente necessarie che volano via, una macchina da presa costantemente attaccata alle eccellenti protagoniste Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux a cui è stata attribuita la Palma insieme al film, aggirando così la regola che non permette di destinare più di un premio importante allo stesso titolo. Mai si erano viste al cinema scene di passione lesbica così belle e palpitanti, infiammate, carnali, mai l’amore tra due donne è stato rappresentato in maniera così vitale e senza filtri, con lacrime, saliva, sudore, senza sospetti di voyeurismo o compiacimenti estetizzanti. Mai si era visto e parlato di famiglia gay con figli attraverso una così autentica e commovente partecipazione emotiva.

Kechiche è emozionatissimo, parla lentamente e con lunghe pause (ma sono i suoi ritmi, anche cinematografici) e ricorda Claude Berri, «un uomo che mi ha sostenuto per trovare la mia strada, che amo e che mi manca. Vorrei dedicare questo premio e questo film alla bella gioventù di Francia che ho incontrato nel corso delle riprese del mio film e che mi ha insegnato molto sulla speranza di libertà e di vivere insieme in armonia».

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«Una grande storia d’amore – la definisce Spielberg alla conferenza stampa della giuria -. Siamo stati privilegiati e non imbarazzati per essere stati invitati ad assistere a una storia di profonda passione e come essa evolve senza costrizioni ma lasciandola scorrere, osservando la crescita dei personaggi. Ci hanno stregato le interpretazioni delle eccezionali protagoniste e di tutto il cast. Il regista ha avuto il coraggio di raccontare una storia nel modo in cui andava raccontata».

Inevitabile pensare anche a un forte messaggio politico di massima attualità mentre e Parigi si manifesta ancora contro la legge sui matrimoni gay e pochi giorni fa ha fatto scalpore il suicidio dello scrittore antigay Venner sull’altare di Notre-Dame. Ma a questo proposito il presidente di giuria frena: «Non è stato un criterio politico ma artistico. Certamente questo film porta con sé un forte messaggio».

Abbiamo poi chiesto a Spielberg se è piaciuto l’altro meraviglioso film gay del concorso, Behind The Candelabra, il grande escluso dal Palmarès: «Abbiamo amato molti film, è stata una decisione assai difficile. E c’erano davvero straordinarie interpretazioni». Non si può non pensare al grandioso Michael Douglas che si trasforma mirabilmente sotto gli ermellini e i damascati di Liberace, a cui è stato soffiato il Prix d’Interprétation da Bruce Dern per il suo anziano con principio di Alzheimer, ruolo molto più facile, per l’edificante road movie in bianco e nero Nebraska di Alexander Payne. Bérénice Bejo si aggiudica a sorpresa il riconoscimento per la migliore attrice in Le Passé che sarebbe stato perfetto per la sceneggiatura andata al cinese A Touch Of Sin premiato da Asia Argento panterona sexy. La Bejo ha così battuto la sublime Emmanuelle Seigner più meritevole nella metateatrale e deliziosa Venere in pelliccia di suo marito Roman Polanski. Condivisibile il Grand Prix al malinconico e sonnacchioso Inside Llewyn Davis dei fratelli Coen con un Isaac Davis musicista folk tutto in sottrazione che ha ritirato il premio da un’impressionante Kim Novak ottantenne completamente rifatta. Il Prix du Jury è andato giustamente all’umanista Tale padre, tale figlio di Kore-eda, una sorta di Il figlio dell’altra in chiave zen su due coppie giapponesi i cui bambini sono stati scambiati alla nascita.

La Queer Palm – La Queer Palm va invece all’altra rivelazione gay di quest’edizione, l’innovativo thriller erotico L’inconnu du lac di Alain Guiraudie che ha ritirato il premio con i suoi attori Pierre Deladonchamps e Christophe Paou durante il riuscito party alla Terrazza Martini sulla spiaggia del Gray D’Albion. Il regista francese si aggiudica anche la miglior regia alla sezione Un Certain Regard vinta dal cambogiano in animazione di statuine fatte con la creta L’image manquante di Rithy Panh. Il simpatico presidente di giuria Thomas Vinterberg, grande regista di Festen e La caccia, ha pure citato le “fellatio omosessuali” del film tra «le immagini uniche che resteranno nella nostra memoria di questa sezione eccezionale sotto molti aspetti» oltre alle «figure di creta di estrema bellezza, la violenza, l’umiliazione sistematica del genere umano, le gambe di Léa Seydoux in una selezione brutale, insistentemente antisentimentale, talvolta disturbante, diversa, politicizzata ma sempre poetica». Verdetti supergay che confermano l’ottima qualità dei film lgbt, non molti ma tutti notevoli, di quest’edizione memorabile.

Gli altri film gay – Un’altra bella sorpresa è l’esilarante commedia queer Les Garcons et Guillaume à table! di Guillaume Gallienne che ha vinto due premi alla Quinzaine des Réalisateurs, l’Art Cinema Award e il SACD destinato a film francofoni. Non si era mai visto ridere così di gusto al Marriott ex Noga Hilton per le spassosissime avventure tragicomiche dello stesso Gallienne che racconta la sua vita rocambolesca su un palco teatrale (è tratto da una sua pièce di successo). Guillaume è un bambino timido e complessato nato in una famiglia altoborghese. Ha un rapporto molto stretto con la madre imperiosa ed è odiato dai fratelli, in particolare uno di loro tenta addirittura di farlo annegare in piscina. Guillaume adora la principessa Sissi, vorrebbe diventare una femmina e quando il padre lo sorprende travestito in camera resta sconcertato. Inanellando una serie di improbabili psicologi, Guillaume accetta la propria omosessualità ma la sua ingenuità infantile gli fa collezionare delusioni sentimentali una dietro l’altra (strepitosa la sua prima volta col ragazzo arabo che lo porta a casa sua ma in realtà vuole fare un’orgia con altri due amici che lo minacciano accusandolo di razzismo). Geniale l’idea di Gallienne di interpretare, oltre che se stesso, anche la madre che sembra un po’ Tootsie, generando equivoci molto divertenti anche perché Guillaume ha la stessa voce della genitrice e viene spesso scambiato per lei. Cameo della bellissima Diane Kruger nei panni di una massaggiatrice inflessibile di una beauty farm che lo costringe a un imbarazzante lavaggio del colon: pubblico entusiasta e sganasciante. Il film è strepitoso! Parte gender come Ma vie en Rose, diventa Il Vizietto, poi una commedia brillante alla Woody Allen in salsa queer per finire con un colpo di scena spiazzante. E ci si commuove davvero quando si vede nella sala teatrale, sul grande schermo, la vera madre di Gallienne, visibilmente emozionata. Il regista/attore/attrice, riccioli neri e modi simpaticamente nerd, è espressivo e bravissimo, dai tempi comici perfetti. E Les Garcons et Guillaume à table! (avrà come titolo internazionale Me Myself and Mum) era una delle poche commedie di quest’edizione dominata dal tema della violenza e del sesso, spesso accoppiati: nell’insostenibile Tore Tanzt (Nothing Bad Can Happen) un ragazzo suggestionabile, appartenente alla setta religiosa dei Jesus Freaks, trova ospitalità presso una famiglia il cui padre è ultraviolento e lo fa stuprare in un sex club gay da un suo amico (la scena è rivoltante). Lui si crede un martire e spera di salvare gli altri componenti della famiglia facendo sfogare la furia selvaggia del capofamiglia su di lui. Anche nel discreto e classicheggiante The Immigrant di James Gray ambientato a New York negli anni ’20 appare un personaggio gay, il delicato figlio di un celebre sarto che lo definisce “poco virile” e paga il protettore della prostituta polacca emigrata illegalmente negli States, ben interpretata da Marion Cotillard, affinché gli faccia perdere la verginità convinto di ‘convertirlo’ all’eterosessualità.

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