Al cinema, non è una novità, il lesbismo ‘scotta’. Soprattutto se si tratta di un film hollywoodiano, destinato a un pubblico più ampio possibile. E se si affronta già un altro tema forte, addio. Mano alle forbici. Anche perché l’equazione lesbismo = perversione è una delle poche convinzioni (perverse) di molti sceneggiatori d’oltre oceano.
Ecco l’ennesimo caso di adattamento cinematografico di un best seller sessualmente ‘epurato’, in questo caso ‘Oleandro Bianco’ di Janet Fitch (foto), losangelina esordiente che riuscì a vendere negli anni ’90 oltre due milioni di copie facendo tradurre la sua opera in 22 paesi. Sua grande fan si rivelò l’onnipotente star televisiva Oprah Winrey che contribuì non poco al successo del libro pubblicizzandolo nel suo seguitissimo show.
Come era già successo per precedenti illustri come ‘Pomodori verdi fritti’ di Jon Avnet e ‘La morte non sa leggere’ di Ousama Rawi, quasi ogni elemento gay/lesbico è stato però modificato, smussato, edulcorato. E dire che la sceneggiatura è firmata da Mary Agnes Donoghue, la stessa del lesbico ‘Spiagge’ di quindici anni fa con Bette Midler e Barbara Hershey.
La giovane Astrid, abile ritrattista costretta a peregrinare da una famiglia adottiva all’altra dopo che la mamma pittrice (originariamente era poetessa) è finita in carcere per aver ucciso il suo uomo fedifrago, nel libro è bisessuale, ha anche una bella storia d’amore con una vitalissima prostituta di colore che abita nella casa di fronte e le fa da mamma, amica e amante. Ma nel film questo personaggio, assolutamente rilevante nell’economia della narrazione, non c’è.
Il ragazzino disegnatore che s’innamora di lei in istituto pur credendola lesbica per i suoi atteggiamenti ‘butch’ e il suo look darkeggiante, nella storia originale è, al contrario, gay. E il sesso è anche ammorbidito nella relazione (che da carnale diventa quasi platonica) con Jay, il primo padre adottivo della vicenda.
Inoltre nel trailer italiano ‘White Oleander – Oleandro bianco’ di Peter Kosminsky sembra un thriller con colpi di scena al cardiopalma ma si tratta al contrario di un melodrammone sentimentale un po’ televisivo (il regista inglese è specializzato in sceneggiati per il piccolo schermo) dal soggetto mesto e con una forte tendenza all’afflizione, stilisticamente classico. Rilevante il supercast tutto al femminile con una Michelle Pfeiffer nella parte della madre Ingrid, dominante, possessiva e indipendente, il cui ruolo è però secondario rispetto alla Astrid Magnussen di Alison Lohman, intensa e camaleontica, la vera rivelazione di questo film, capace di tener testa alla veterana Pfeiffer nei tormentati colloqui a due nel carcere (e non si capisce come una condannata a trent’anni in un carcere di sicurezza riesca ad avere i lunghi capelli lisci sempre in perfetto ordine).
Le altre madri surrogate cercano in buona fede di sostituire o integrare l’ingombrante figura di Ingrid che aleggia come un fantasma nell’accidentata esistenza della figlia inquieta alla ricerca di una sua identità mentre viene sballottata da una famiglia all’altra: Robin Wright Penn è Starr, integralista religiosa ex alcolizzata con figlia scavezzacollo e marito inaffidabile; Renée Zellweger, gonfia e incupita, interpreta Claire, attrice depressa che verrà indotta al suicidio forse proprio da Ingrid. Redenzione finale (come al solito grazie al potere dell’arte) posticcia e consolatoria. L’oleandro bianco del titolo, immerso in un bicchiere di latte, pianta splendidamente candida ma dai fiori velenosi, simboleggia la bellezza pericolosa della madre ereditata mal volentieri dalla figlia, strumento di morte e causa di ferimenti.
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