Cannes, quante lacrime per Xavier Dolan vincitore di un meritato Grand Prix

Palma d’Oro a sorpresa: "I, Daniel Blake" di Ken Loach. La Queer Palm va al doc "Les vies de Thérèse" di Sébastien Lifshitz

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Xavier Dolan - Grand Prix 2

Autenticità emotiva. È proprio una sincerità viscerale quella che emerge dal discorso inzuppato di lacrime dell’emozionatissimo Xavier Dolan sul palco della Salle Lumière per ritirare il Grand Prix (meritato) andato al suo intenso dramma famigliare Juste la fin du monde (trovate la nostra recensione qui). La stessa autenticità emotiva che i suoi detrattori gli negano, sostenendo che la sua idea di cinema sia troppo glam e modaiola, mentre questa volta la passione dei suoi personaggi sul bordo costante di una crisi di nervi suona al contrario umana e veritiera. Il giovane cinevirgulto canadese dedica il premio al suo costumista François Barbeau morto ad agosto, “un grande artista, così grande, così discreto”, ringrazia la sua produttrice Nancy Grant “amica mia, mia confidente”, l’attrice Anne Dorval “che mi ha fatto scoprire questa pièce” e la giuria “per aver sentito l’emozione del film: l’emozione non è sempre facile da condividere. La violenza a volte nasce come un grido o come uno sguardo che ti uccide”. Spera di non aver deluso “il grande Jean-Luc Lagarce”, autore della pièce da cui è tratto il film, “ovunque egli sia” (è deceduto nel 1995 per Aids). “I miei personaggi sono a volte cattivi, a volte buoni – spiega Dolan – ma soprattutto feriti, che vivono tra di noi nella paura. Tutto ciò che si fa nella vita si fa per essere amati, almeno io sì, per essere accettato. Girerò film per tutta la vita che saranno amati o no ma, come diceva Anatole France, preferisco la follia delle passioni alla saggezza dell’indifferenza”.

Ken Loach

Sorpresa assoluta la scelta della Palma d’Oro andata all’impegnato I, Daniel Blake di Ken Loach, certo nulla di nuovo dal punto di vista artistico – era un po’ il problema dei grandi autori di quest’anno che hanno rifatto se stessi, anche meno bene del solito come Almodóvar – ma indubbiamente il titolo più eticamente urgente (il dramma dei senza lavoro in Inghilterra stritolato dalla burocrazia kafkiana del Welfare) che lancia un messaggio politico importante a un festival a rischio di essere percepito soprattutto come una fiera di vanità milionarie tra paillettes e tappeti rossi.

Insulso il premio come miglior regia (ex aequo con Bacalaureat di Cristian Mungiu) al pessimo Personal Shopper di Olivier Assayas, un inconsistente thriller con deriva spiritista – con tanto di apparizione di un ridicolo spettro digitale alla Ghostbusters – il cui unico motivo di interesse è un’imbronciata Kristin Stewart perseguitata sul cellulare da uno stalker e in contatto con lo spirito del fratello gemello defunto (come rendere imbarazzante l’atmosfera misterica? Far apparire un bicchierino fluttuante).

Les Vies de Thérèse

La Queer Palm è andata per la prima volta a un documentario, Les Vies di Thérèse di Sébastien Lifshitz. La giuria capitanata dai registi Olivier Ducastel e Jacques Martineau ha così motivato la scelta: “Abbiamo voluto offrire un doppio premio: una palma per Sébastien Lifshitz e il suo emozionante film che sa raccontarci la storia di una donna e delle sue lotte, unendo vita privata ed impegno politico, esplorando periodi diversi, discutendo la sessualità, interpretando perfettamente i ruoli che la società c’impone. Il regista ci offre uno sguardo tenero su questa donna, uno sguardo amoroso, pieno di venerazione ma che lascia allo spettatore la giusta distanza che richiede la raffigurazione di questa donna combattente sulla soglia della morte. Un altro premio è una palma per Thérèse Clerc, deceduta il 16 febbraio 2016, per questa donna che sapeva, tracciando la propria strada, aprire anche la nostra, di aiutare la nostra lotta, ricordandoci costantemente quanto il nostro desiderio e la nostra sessualità, possano e debbano nutrire la nostra lotta per una società più giusta. La giuria è inoltre lieta di avere assegnato il primo documentario alla già ricca lista di opere premiate con la Queer Palm a Cannes”. Tra i cortometraggi è stato scelto il francese Gabber Lover di Anna Cazenave-Caldwell, “un film limpido con una regia controllata, un film altamente sensibile dove la regista racconta la storia in maniera acuta e profonda, facendo confrontare i personaggi con la propria situazione sia intima che sociale. Un film sul coming out, dove s’impara a conoscere il proprio desiderio riuscendo a dargli finalmente libero sfogo. Gabber Lover è un film che non dubitiamo riuscirà a portare un messaggio di liberazione ai giovani spettatori”.

ElleIn un’edizione non memorabile, senza grandi film in grado di imporsi – paradossalmente, uno dei titoli più ‘piccoli’, Paterson di Jim Jarmusch, col suo minimalismo poetico si è rivelato tra i migliori ed è un peccato che sia stato ignorato dalla giuria – la tematica queer ha visto una curiosa predominanza al femminile anche se spesso disgiunta da un vero contesto social-culturale e rappresentata come impulso pulsionale pruriginoso a uso e consumo di un pubblico maschile etero. Per esempio nel brutto The Neon Demon di Nicholas Winding Refn, patinato e inerte megaspot estetizzante in cui l’idea delle modelle vampire resta purtroppo larvale, la truccatrice interpretata da Jena Malone tenta un approccio nel talamo della protagonista Elle Fanning ma viene cacciata a piedate e cerca di consolarsi col cadavere di una donna – la scena vorrebbe essere shock e provocatoria ma è semplicemente ridicola – alla quale deve preparare il trucco per le esequie.

Anche nello strano thriller Elle di Paul Verhoeven che inizia con uno stupro osservato da un gatto e diventa una sorta di satira famigliare ai confini del grottesco, la veterana Isabelle Huppert, algidamente perversa come nei suoi ruoli migliori, si ritrova a letto con una cara amica che la pungola: “Ci avevamo già provato in passato, no?” ma il giro di lenzuola saffico non ha un seguito.

Le Cancre

Ha fatto infine tenerezza la proiezione speciale del nostalgico Le Cancre firmato dal maestro 86enne Paul Vecchiali, autore del cult gay Encore – Once More, in splendida forma con tanto di smoking alla presentazione nella Salle du Soixantième. Una sorta di delicato inno all’amore declinato in tutte le sue varianti attraverso l’incontro, immaginato oppure no, di un anziano signore, Rodolphe (il regista stesso) con le donne che ha amato nella sua vita, in particolare l’adorata Marguerite (nientemeno che Catherine Deneuve). Appare anche un signore gay che il protagonista dovrebbe ospitare in casa sua dove vive col figlio interpretato da Pascal Cervo del quale crede inizialmente si tratti del fidanzato. Un’affettuosa ricerca di memorie amorose pullulanti vita vera, messa in scena in modo teatrale con la semplicità anarchicamente pauperistica tipica del regista invitato per la prima volta in selezione ufficiale a Cannes. Verrà distribuito da The Open Reel.

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