Pochi conoscono Amanda Lear nella veste artistica di pittrice. Eppure lei stessa – che all’anagrafe si chiama Amanda Tapp, e anche questo non lo sanno in molti – ama molto di più quest’espressione di sé rispetto alla versione cantante/presentatrice che l’ha portata al successo. «Mi definisco una pittrice che fa anche spettacolo» sostiene Amanda. «La gente mi conosce unicamente come personaggio dello show business e non sa quanto per me sia più importante l’arte, rispetto al trucco e ai costumi di scena. Lo spettacolo paga l’affitto ma la pittura è la mia unica vera passione. L’arte è per me una sorta di terapia, grazie alla quale riesco ad interpretare i miei sentimenti: angoscia, rabbia, speranza e desiderio sessuale, che esprimo attraverso l’uso di colori forti, accesi e violenti, quali il rosso, il giallo e il verde. Una tela vuota davanti ai miei occhi è sinonimo della libertà assoluta di espressione, quella di poter dare voce al mio mondo segreto».
L’occasione per poter scoprire questo lato meno noto della poliedrica Lear è la personale a lei dedicata che ha aperto i battenti mercoledì scorso a Nizza presso la Galerie Princesse de Kiev nella centrale rue Valperga. Sono esposte una quarantina di opere, soprattutto oli, gouaches dai colori caldi e disegni a china che hanno come soggetto composizioni di fiori, nudi di figure mitologiche o angeli evocanti una sorta di tormento esistenziale, con predilezione per gli sfondi blu notte.
Pur avendo avuto un maestro d’eccezione come il surrealista Salvador Dalì, conosciuto nel 1965 e col quale visse una sorta di "matrimonio spirituale" diventandone la musa (fu anche modella per alcune sue opere), Amanda Lear predilige l’espressionismo figurativo, più vicino ai suoi studi di belle arti compiuti in giovinezza.
Ma con Dalì ha in comune una sorta di decadentismo indotto che mette in evidenza la caducità dell’esistente rivitalizzato però da un’esaltazione della carnalità liberatrice, come nel dipinto Midas in cui a rendere oro tutto ciò che tocca è un re nudo e muscoloso, a sua volta dorato dalla testa ai piedi. Ma dell’edonismo contemplativo la Lear mette in evidenza anche il suo valore effimero, intitolando Vanity un teschio gignante in campo scuro, quasi una versione anti-glam del blasonato e preziosissimo omologo scultoreo di Damien Hirst.
Del corpo femminile tende invece a privilegiare volti e capigliature, la rotondità delle forme ispirata alla visione classica della bellezza muliebre e una certa impersonalità dei soggetti che li rende quasi astratti (le donne ritratte di solito non hanno la testa visibile, oppure gli occhi).
Alcune delle opere esposte sono state già mostrate in Italia qualche anno fa, a Roma, Firenze e Modena (la Lear perse parte della sua produzione pittorica insieme a una quindicina di quadri di Dalì nel tragico incendio del 2000 scoppiato nella sua casa provenzale di Saint-Etienne-du-Grès dove persero la vita il marito gay Alain Philippe Malagnac d’Argens e un giovane ventenne).
L’esposizione nizzarda è visitabile fino al 31 luglio, tutti i giorni esclusa la domenica.
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