La giovane figlia di un ufficiale prussiano deceduto si innamora della bella e permissiva educatrice del severo collegio in cui è rinchiusa e, incurante dello scandalo che creerà, confessa davanti a tutti i propri sentimenti dopo la recita annuale dell’istituto. Con questa bella ed eclatante dichiarazione pubblica d’amore lesbico datata 1931 si apre l’excursus su I 100 classici del cinema gay che Vincenzo Patanè delinea nel saggio da poco pubblicato per i tipi della Cicero (242 pagine, 20 euro). Non si tratta dell’ennesima raccolta di recensioni che cercano di mettere ordine in quel mare, ormai diventato piuttosto ampio, di pellicole che ricoprono un qualche ruolo nella cultura omosessuale. O, almeno, non si tratta solo di questo: è vero che il libro è la riedizione “ritoccata e ampliata” – come ammette lo stesso autore nella prefazione – di A qualcuno piace gay che nel 1995 ebbe il merito di essere uno dei primi libri italiani sul cinema a tematica gay e lesbica. Ma la lettura delle 100 schede di questa nuova fatica di Patanè si snoda come una ricostruzione storica del percorso che dal 1931 al 1994 – periodo di riferimento della raccolta – ha portato l’omosessualità ad affiorare nell’immaginario cinematografico internazionale con sempre maggiore consapevolezza.
^fr2Nei primi tre titoli presentati nel volume e usciti negli anni Trenta, ad esempio, l’essere omosessuali è una condizione non condannabile anzi venata di innocenza come nel caso del tenero amore della collegiale per la sua istitutrice nel tedesco Ragazze in uniforme di Leontine Sagan del 1931 o in quello della Regina Cristina dell’hollywooddiano film omonimo firmato da Rouben Mamoulian o dei giovani protagonisti di Zero in condotta di Jean Vigo.
Nei decenni successivi, il “pericolo” omosessualità comincia a incutere timore e così si alternano pellicole intrise di omofobia come Nodo alla gola di Alfred Hitchcock (1948), in cui la colpevolezza dei due uomini protagonisti è riferita tanto alla relazione che li unisce quanto all’omicidio gratuito che commettono, ad altre provenienti dall’area “underground” che testimoniano il desiderio di affermazione identitaria delle persone omosessuali: è il caso di Fireworks (1947) di Kenneth Anger, caratterizzato da una sensualità fantastica e quasi sognatoria, o dello splendido Un chant d’amour di Jean Genet del 1950, ambientato in una prigione pullulante di sesso tra maschi.
Intorno al 1960, negli Stati Uniti, il famigerato codice Hays che vietava qualsiasi rappresentazione positiva dell’omosessualità ha lasciato spazio solo a pellicole che la presentassero come divertente travestitismo (basti pensare a A qualcuno piace caldo di Billy Wilder del 1959) o in cui le persone omosessuali fossero presentate come malate e costrette al suicidio (Improvvisamente l’estate scorsa con Elizabeth Taylor e Montgomery Clift). Mentre Hollywood faticherà a liberarsi da questi tabù, l’Europa comincia a regalare agli spettatori gay alcune pellicole che rimarranno a lungo nella memoria. Del 1964 è il film francese di Jean Delannoy Le amicizie particolari mentre nel 1969 tre pellicole italiane sono le prime citate da Patanè: si tratta di Teorema di Pasolini in cui appare anche il primo nudo maschile del cinema italiano, La caduta degli dei di Luchino Visconti e Fellini-Satyricon del genio riminese.
Con i Settanta anche il cinema americano comincia a scoprire l’omosessualità serenamente vissuta con opere come Festa per il compleanno del caro amico Harold (che pure, come ricorda Patanè, fu “fonte di molte critiche nello stesso ambiente gay americano” che arrivò a picchettare i cinema in cui veniva proiettato) fino ad arrivare al mitico Rocky horror picture show del 1975. In Italia si alternano le opere di Visconti e Pasolini (Ludwig, Il fiore delle mille e una notte) e quelle caratterizzate da una visione macchiettistica (Splendori e miserie di Madame Royale di Vittorio Caprioli del 1970 o il mitico Vizietto del 1978).
A rileggere oggi la storia del cinema gay negli anni successivi, l’omosessualità appare in qualche modo sdoganata e a ragione si possono alternare pellicole che la presentano con connotati negativi (il contestato Cruising di Friedkin del 1980) ad altre che ne sviluppano aspetti più intimi (My beautiful laundrette di Stephen Frears è del 1985).
Come in tutti i libri che raccolgano schede e recensioni di film gay (si pensi a Cinema gay, l’ennesimo genere di Roberto Schinardi, pubblicato da Cadmo nel 2003), si potrebbe sollevare qualche obiezione relativamente alla scelta dei titoli da includere nel volume. Qui lo stesso autore si “scusa” nella prefazione di aver dovuto escludere molti film eccellenti come Orlando o The sum of us con un adolescente Russell Crowe. Ma, se così si può dire, queste mancanze vengono riscattate dai contenuti pubblicati a fine volume: un excursus sui festival GLBT, un elenco dei 50 film fondamentali GLBT e ben cinque indici che permettono di raccapezzarsi in ogni modo nell’intrico dei film che, come recita il sottotitolo del libro, “cambiano la vita”.
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