Se si dovesse giudicare il rapporto che gli omosessuali maschi hanno con i loro genitori attraverso i libri che circolano in questo periodo, staremmo freschi. Il primo è la raccolta di racconti di Michele Gabbanelli, che già avevamo conosciuto con il suo Perduti in un vagare adriatico e che in questo Orfani di padre (PeQuod, 160 pagine, 14 euro) si dedica a una ricognizione dell’identità paterna.
Sette storie diverse centrate sul rapporto tra padre e figlio in cui si alternano situazioni "classiche" di omosessuali in difficoltà con genitori troppo assenti e troppo pressanti ad altre meno solite come quella del papà alle prese con la propria omosessualità. Il ritratto che emerge è quello di una relazione fatta di troppi vincoli o di troppi bisogni insoddisfatti, da cui difficilmente se ne esce felici. Una seconda opera per Gabbanelli, escludendo l’apparizione di alcuni suoi racconti inseriti nelle raccolte Men on men, che conferma il suo stile ridondante, infarcito di riferimenti letterari e citazioni, decisamente poco incline alla scorrevolezza della lettura.
Ha invece il sapore del romanzo classico, quasi ottocentesco, ricco di descrizioni e di momenti di introspezione Gioia e conforto di Jim Crimsley (traduzione di Giulio Tancorre, Edizioni del Cardo, 336 pagine, 16,80 euro), che ha adoperato uno stile poetico e delicato per raccontare la relazione tra due uomini che lavorano nello stesso ospedale, l’affascinante medico Ford e l’impiegato amministrativo Dan dotato di una voce stregata e di una infezione da Hiv derivata dal suo essere emofiliaco. Entrambi non hanno rapporti sereni con la famiglia: Dan ha perso il padre violento che ha costretto la moglie a subire di tutto, Ford vive con angoscia l’insistente richiesta che proviene dai suoi, genitori dell’alta borghesia cittadina, a trovare presto una ragazza da sposare. Ma quando la storia fra i due acquista importanza, diventa necessario parlarne a casa, e scelgono di farlo il giorno di Natale. Ma mentre la madre di Dan, che gestisce un piccolo cimitero insieme con il suo secondo marito, finisce per comprendere l’importanza della relazione tra i due, dai genitori di Ford viene un iniziale rifiuto netto e categorico.
Ma il libro più bello è senz’altro La madre di tutti i dolori di Richard McCann (traduzione di Maria Scaglione, Playground, 160 pagine, 13 euro) vincitore dello C. Zacharis come migliore opera prima nel 2005 e finalista al Pen/Robert Bingham e al Lambda Literary Award nel 2006. La storia, ambientata negli anni Cinquanta, è quella di due fratelli con una madre emotiva tendente alla depressione e un padre "tutto d’un pezzo". Ma mentre il protagonista, fratello minore, ha una relazione viscerale con la figura materna, da cui è attratto tanto da cercare di imitarla in tutti i modi, l’altro riesce a dare al padre quelle soddisfazioni nelle occupazioni tipicamente maschili che il più piccolo non dà. Salvo poi scoprirsi, dopo la morte del padre e le interminabili crisi depressive della madre, entrambi gay. Una comunanza solo apparente; il più grande è incline alla dissoluzione, ha spesso problemi di droga e viene arrestato per atti osceni in luoghi di rimorchio all’aperto, e all’opposto il più piccolo ha difficoltà a vivere la sua sessualità e insegue il ritratto del bravo ragazzo. E il suo rapporto con la madre diventa anche lo specchio con il quale analizzare l’apparente distanza dal fratello, al quale in realtà sente di assomigliare intimamente molto più di quanto voglia. Il libro ruota intorno al tema della morte con grande rispetto, senza cadere quasi mai nell’autocommiserazione (tranne, forse, in alcune pagine della sezione finale) ma racconta con schiettezza le tracce che gli eventi luttuosi lasciano anche negli aspetti più intimi della persona.
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