Cosa c’è di poetico nella lotta per l’accettazione di sé? Il dibattersi tra le irrefrenabili pulsioni omosessuali e l’incapacità di conviverci, può essere tema di una tragedia? Tra odi al cazzo e liriche descrizioni delle atmosfere di una dark, tra confessioni spudorate delle più intime sensazioni e l’irrompere chiassoso della voce della società, Ludovica Ripa di Meana affronta in "Kouros" (Nino Aragno Editore, 160 pag, 11 €) la sfida di mettere in versi la vicenda patetica e tragica di un omosessuale incapace di vivere con serenità il proprio orientamento.
Certo, "Kouros" non è solo questo. E’ anche ritratto crudele dei meccanismi della famiglia alto-borghese, è raffronto tra le pulsioni interiori e la "vox populi" della massa. Ed è, soprattutto, poesia. Nei versi trovano spazio infatti quadri non privi di lirismo, sui temi più crudi della realtà gay. Come l’ode al pene con cui il coro manifesta la volontà di liberare questo oscuro oggetto del desiderio dalla sua secolare prigionia:
Perché lo chiamano nerchia?
Perché lo chiamano pacco?
Oh, genitali maschili,
miti e così denigrati,
riabilitarvi vogliamo
Oppure il bel coro dedicato alla dark-room, che non condanna l’illusione di svuotarsi dalle pene degli uomini che l’affollano, pur ritraendone perfettamente il clima di desolazione e morte ("…qui dove un candido schizzo/traccia un tracciato di lutto").
La vicenda si snoda intorno alla figura di Ludovico (singolare che l’autrice abbia scelto per il protagonista la versione maschile del proprio nome), figlio di un ricco imprenditore abituato a tradire la moglie con molte donne, a considerare il suo unico figlio maschio l"erede" del suo impero, e che nel momento in cui lui gli dichiarerà il proprio orientamento, non esiterà a diseredarlo completamente. La crisi che attanaglia Ludovico alle prese con la difficoltà di vivere serenamente la propria omosessualità, viene resa attraverso il raffronto tra questo e l’attore che lo interpreta, gay anche lui, ma molto meno problematico nell’affrontare la questione.
L’ATTORE
Ma una bella scopata vitaminica,
con un maschione bello con i baffi,
di quelle che puliscono il cervello
e fanno fischiettare anche l’uccello
a cose fatte, e vai via levitato,
mani in tasca e più languidi i pensieri…
una bella scopata, l’hai mai fatta?
LUDOVICO
Il mio è un desiderio allucinato,
fa a pezzi il corpo, non regge all’insieme.
Quando cerco in un cesso o in un giardino,
a un segmento di carne offro un segmento,
per un dettaglio divento un dettaglio.
Ludovico, come si evince da questi versi, vive il desiderio con una punta di autodistruzione ("Sono una malattia. Non contagiarti" dice a uno dei pochi amici che gli si avvicinano), il sesso non come piacere ma come necessità ("Ho già bisogno di un fratello, lui,/che sgusci sull’attenti dallo slip"), mentre l’attore fa da contrasto con la sua sessualità libera e disinibita.
A questa dialettica, si sovrappone la descrizione delle origini sociali dei due: la famiglia di Ludovico, con la madre apprensiva che arriva a infilarglisi nel letto per scongiurare, sulle prime, l’omosessualità del figlio, è una gabbia invincibile di condizionamenti sociali, che culmina nella distrazione con cui la madre affronta nel finale l’inevitabile ma sorprendente lutto (sennò, che tragedia sarebbe?).
L’opera, di cui ci si chiede se sia davvero rappresentabile in teatro, si snoda così tra quadri e flashback, alternati con dialoghi e lirici interventi del coro, in una struttura che ripercorre, rinnovandola, quella della tragedia classica. Il tutto assume un sapore di supponenza, e capita di chiedersi se le scelte stilistiche fossero davvero necessarie o dettate solo dal compiacimento dell’autrice nel servirsi della scrittura poetica. La Ripa di Meana ha già scritto per il teatro dei monologhi in versi, come il "Ciò esula" così ben reso da Elisabetta Pozzi nella scorsa stagione. Ma superando la forma del monologo, sembrano apparire delle problematiche che la struttura a quadri della tragedia non risolve fino in fondo. A parte qualche appesantimento, tuttavia, il libro è di lettura gradevole: non di rado si sorride, quando non si ride di gusto, della situazione comica e tragica di Ludovico e delle reazioni che suscita negli altri personaggi. Capita anche di sorridere per involontari eccessi nel rendere poetici argomenti che, francamente, nella luce in cui vengono presentati di poetico hanno veramente poco.
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