ORSI E TULIPANI

Dai "bears" affrescati ai finti giardini. In occasione della sua mostra e della pubblicazione di Tender, incontriamo Stefano Arienti. "Quanto contribuisce essere gay?"

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8 min. di lettura

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MILANO – Stefano Arienti ha uno sguardo limpido sulle cose.
In galleria un piccolo bosco suburbano in cui fioriscono i tulipani, osservato con la stessa calda evidenza con cui sono rappresentati i frutti nella canestra di Caravaggio. Uomini nudi intravisti e inseguiti nei disegni che compongono il volume Tender: la natura, investita dallo sguardo di Arienti, e dal senso morale che ogni sguardo esercita sul suo oggetto, smette di essere qualcosa di estraneo e rivela una condizione, un destino affini a partecipi a quelli dell’uomo.
Forse questo sguardo in armonia con le cose deriva ad Arienti dalla sua formazione scientifica: ma sulla logica finalizzata della scienza o della produzione, che ad essa principalmente attinge, l’artista ha innestato le logiche illogiche dell’errore umano che nasce con la pratica, e della fantasia che immagina, e inventa. Anche questo giardino, che si infittisce sulle due dimensioni della parete dello Studio Guenzani di Milano, si rivela all’occhio rapito come un bosco “incantato”: i fogli di carta, materiale ricavato dall’albero che viene usato per riprodurre proprio i fusti dei tronchi, nel meditato sovrapporsi penetrano l’immagine, inducono una visione sfuggente, frammentata, obliqua… come se vi passeggiassimo in mezzo. Una situazione narrativa carica di suspense, in cui ogni cosa e così “vicina” a noi ma anche così “flagrante” in sé stessa da sprigionare tensione, come quando al cinema una lenta panoramica descrive un ambiente (fisico della galleria e illusivo dell’immagine) prima di introdurre il protagonista o di dare avvio alla storia… un mondo “a parte”, come quello di tutte le opere d’arte, che l’artista, facendolo a mano con sistematica cura, pezzo per pezzo, ha creato non tanto per distaccarsi dal mondo, quanto per permetterci di farne parte in modo più disponibile, intenso, piacevole e sorprendente.
Quest’attenzione amorosa per la vita manifesta una dichiarata sintonia con l’arte di un grande maestro degli anni Sessanta, Alighiero Boetti, con la sua concezione dell’arte come gioco, come pratica collettiva, come creazione di cose belle usando cose semplici, un’arte profondamente implicata con le manifestazioni del quotidiano, per cui il più grande piacere consisterebbe nell’inventare il mondo così com’è, senza inventare proprio nulla, giocandoci come facevamo da bambini impastando torte di terra, mischiando la sublimazione estetica dell’adulto sognatore con la più radicale disomogeneità e refrattarietà del banale. Un approccio libero all’arte che ha rivelato pienamente la sua portata di anticipazione solo più tardi, quando si esaurirono le spinte contrapposte dell’arte concettuale e di quella neo-espressionista affermatesi nel frattempo per antitesi. Ma in quel periodo, la metà degli anni Ottanta, Arienti non sa ancora se fare l’artista: è l’inverno del 1984-85, convive con un gruppo di ragazzi, che come lui non hanno un’idea precisa del loro futuro, in una fabbrica abbandonata del quartiere Isola di Milano, la Brown Boveri.
Hai sempre dichiarato che una delle cose più importanti per te è stata fin dall’inizio la scelta dell’immagine di cui ti “appropriavi”, la consapevolezza dei materiali e del procedimento con cui la facevi “tua”. In effetti, le tue opere partono sempre da un elemento, anche non evidente, già presente all’interno e come suggerito dall’immagine stessa, dalla tipologia del procedimento o del materiale, più o meno flessibile, lucido, opaco, etc.Questo rispetto dell’esistente, questa specie di “epistemologia empirica” che impara dalle cose ricreandole per sé sono tue fin dall’inizio, quando nello spazio deserto, abbandonato della Brown Boveri, a Milano, graffitasti una serie di immagini pornografiche sulla superficie ruvida e porosa dei muri. Che ne è stato di quei disegni, la tua prima opera?

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Ho cancellato subito io stesso quelle immagini copiate dalle riviste porno. Mi ero accorto che si trattava di un commento troppo gratuito per quel posto cadente e favoloso, una fabbrica abbandonata da vent’anni e piena di vegetazione caotica. Quindi, all’opposto, per mesi mi sono dedicato a disegnare finte muffe colorate con dei gessetti, su quei muri scrostati e pieni di muschio.
Cioè hai sostituito la figura umana con il colore, la forma, la variazione luminosa, come se ci fosse nel tuo modo di vedere un rapporto di profonda implicazione tra elemento umano e elaborazione formale. Allora hai iniziato a lavorare sulla forma delle cose, prediligendo una formalizzazione semplice, diretta, pregnante, come se cercassi di sprigionarne la sensualità innata. Tu stesso ti sei definito “pratico e fantastico”: forse per questo sembra che giochi quando fai l’artista…so che sei un appassionato lettore di libri divulgativi, che a differenza dei saggi o dei romanzi danno l’impressione di un’esperienza “possibile”, di una compagnia “praticabile” con i personaggi e i loro creatori, e può essere che sia da questa dimensione “divulgativa” che deriva anche la tua attitudine a lavorare con le mani, piegando, traforando, cancellando.
Giochi, libri, carta, matite, pennarelli: direi che il tuo tavolo da lavoro è il luogo “critico” dove è più stimolante immaginarti. Vorrei chiederti proprio cosa tieni sul tuo tavolo da lavoro, cosa conservi nel tuo studio.

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Il mio studio è un po’ “incasinato”…ma non ci tengo tante cose. Ho un tavolo dove si sedimentano appunti, matite e computer. Mi sembra strano passarci tanto tempo, e a volte mi sento un po’ un impiegato nel suo ufficio, fra e-mail e telefoni. Sembrerà strano, ma io lavoro un po’ da solo e un po’ no. Mi divido fra ideatore ed esecutore e sono spesso in compagnia per tutti e due i ruoli. In effetti quello del solipsismo dell’artista nel suo studio è un mito duro a morire, penso che dietro un’opera d’arte ci sia più spesso un lavoro collettivo, dove è importante contare sulla collaborazione di tante persone, anche se poi alla fine la firma è una sola. Il momento della raccolta dei materiali rimane comunque cruciale, ho spesso delle raccolte di oggetti e di immagini o di tutti e due, come le stoffe stampate che ho collezionato per i loro disegni…Infine nello studio tengo molti miei lavori, o più propriamente degli studi che mi aiutano a capire come li ho realizzati e che mi stimolano a farne di nuovi.
Anche quando hai immaginato la tua mostra al Castello di Rivoli, nel 2002, sei partito da un’altra tua passione personale, invitando i bambini a ridisporre le centinaia di palline colorate che tu stesso collezionavi e che hai disposto per loro su un grande tappeto dell’IKEA, un po’ come avrebbero fatto nel soggiorno di casa loro, guardando magari la televisione. Ma le tue mostre non sono mai “inoffensive”. Una volta proponesti di realizzare tre luoghi piuttosto strani: un luogo dove fosse abolito il concetto di atto osceno in luogo pubblico e dove fosse possibile quindi fare sesso nel verde, stare nudi, etc.; un luogo dove si praticava e si rifletteva sull’utilità o inutilità pratica dell’opera d’arte; e infine un cimitero ecologico per il riciclaggio dei cadaveri. Quel progetto, che coinvolgeva su un piano di similarità e perfino di interdipendenza sesso, arte e natura non si è realizzato; così come solo in parte sono state realizzate le azioni previste per la tua mostra Murazzi dalla cima, nel 1996 a Torino, in cui peraltro tornasti a proporre un’isola nudista, docce e nebulizzatori, un luogo per parlare e uno per dormire, ma anche oggetti inquietanti che sfuggono a una definizione precisa come un ossario in cui far imbiancare le ossa posto accanto a una bacheca per animali smarriti. I tuoi lavori sono così pericolosi, contengono una visione o un progetto che può davvero fare paura a qualcuno?
Molti miei lavori sono giochi di società, dove si può decidere se entrare nel gioco oppure no. Lo spettatore può spesso prendere delle decisioni rispetto a quello che gli metto davanti; non so se è utopico o se può spaventare, ma si tratta di passare da qualcosa di previsto a qualcosa di più indeterminato. Forse rendo disponibile uno spazio ipotetico ricco di suggestioni insolite.
Parli di “disponibilità”: gli anni Novanta, in cui tu ti sei affermato come artista, sono stati segnati da un personaggio chiave come Felix Gonzales Torres, morto di Aids nel 1996. Adottando mezzi semplici, ovvi, quotidiani, come caramelle o un go-go boy che balla su un cubo, suggeriva significati inaspettati, carichi di affettività ma anche comuni alla vita di tutti. Da una posizione “eroica” come quella di Boetti o Polke o Kippenberger e altri “cattivi maestri” – che lavorarono anche in reazione a un contesto rigido in cui le opposte fazioni, capitalismo/comunismo, astrazione/realismo, conducevano una lotta aperta – la lezione di questi artisti precursori della vostra generazione si è “alleggerita” in utopie “lievi”… un’arte docilmente vigile e attiva, attenta a espandere la nostra conoscenza del mondo e rendere il mondo “un posto migliore”…

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Forse in Italia qualcosa del genere iniziò a farsi strada con maggior forza proprio con il tuo mentore, Corrado Levi, e si è poi sviluppata con artisti come te e con opere come le Alghe fatte di sacchetti di plastica: in una tua bellissima fotografia a torso nudo te le sei perfino avvolte intorno alle spalle, come se fossi appena uscito dal “mare”. Di te hai detto che l’arte l’hai imparata proprio facendola… come interpreti, Stefano, gli sviluppi dell’arte che stiamo vivendo?
Con difficoltà. Non mi considero un critico, anche se sono a contatto con molta arte e ho imparato a conoscerla e apprezzarla. Ho il vantaggio di poter scegliere cosa mi può interessare, indipendentemente da cosa mi succede artisticamente attorno. E’ una delle maggiori libertà che ho a disposizione. La mia frase che riprendi – “ho imparato la storia dell’arte facendola” – forse è un po’ meno presuntuosa di quello che sembra. Vorrebbe indicare che invece di imparare l’arte in modo libresco o distaccato da puro spettatore è possibile farlo mettendosi a disposizione dei maestri. Partendo dai loro materiali, dei loro disegni, delle loro opere.

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Rifarle, continuarle, ricalcarle, così si passa del tempo in compagnia dei maestri, che a volte non sono solo i grandi del passato, ma sono anche i propri coetanei.
Fra le figure che hai più spesso “rifatto, continuato, ricalcato” c’è il corpo nudo maschile. Alla figura del corpo maschile nudo, da cui eri partito alla Brown Boveri, sei tornato nel 1996 e ancora recentemente, ritraendo immagini di “orsi” che avevi scaricato anche da siti web specializzati: contraddicendo il clichè della figura macho, questi uomini, per lo più di una certa età, si scambiano gesti affettuosi, che tu rintracci ripercorrendoli appunto con un pennarello, dando l’impressione di una certa riservatezza, di un intimo rispetto. La sensibilità gay è per sua natura multiforme, accolta come serbatoio del rimosso sociale, è forse soprattutto un’elaborazione intensa del “dominio del sensuale”… Pensi che la sensibilità gay possa in parte aver contribuito a definire il tuo modo di agire come persona e di intendere l’arte?
Sicuramente contribuisce, e anche molto, ma non so esattamente in che modo e in che misura. Alcune opere in particolare hanno un riferimento preciso alla cultura gay, come quasi tutti i disegni che ho dedicato al nudo.

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Di un’opera in particolare sono molto soddisfatto, SBQR netnude gayscape orsitaliani etc, otto grandi disegni di coppie gay abbracciate, del 2000, l’anno del primo World Gay Pride, perché è stata acquisita dal MAXXI di Roma proprio grazie alle risorse dell’Agenzia romana per la preparazione del Giubileo…
(Sorrido). Grazie, Stefano.
Stefano Arienti
Studio Guenzani, Via Eustachi 10, Milano
25 settembre-8 novembre 2003
Orario: da martedì a sabato, 15-19.30

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In collaborazione con il regista francese Vincent Dieutre, Stefano Arienti ha pubblicato per le Editions du Souffle il volume intitolato Tender, una raccolta di disegni dedicati alla figura umana e… “quasi”
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di Andrea Viliani

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