Pasolini e l’arcana ‘teta veleta’: erano i suoi turbamenti omosessuali

Nel quarantesimo anniversario della morte, l’opera pasoliniana è più attuale che mai.

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“Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro”. Così scriveva Pier Paolo Pasolini alla cara amica Silvana Mauri, innamorata di lui, durante il cosiddetto ‘periodo friulano’ del primo dopoguerra a Versutta, dove si era trasferito perché l’abitazione di Casarsa era stata danneggiata dai bombardamenti.

Analizzare i gangli del complesso rapporto tra Pasolini e la sua omosessualità, significa cercare di comprenderne l’iniziale mancata accettazione egodistonica ma anche una profonda fascinazione prima pulsionale e poi più pacatamente emotiva, che emerge in nuce già nelle prime opere risalenti proprio a quel periodo.

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Nel tumultuoso diario giovanile Pagine involontarie, noto anche come i Quaderni Rossi (erano in tutto cinque) o Il romanzo di Narciso, PPP descrive i primi turbamenti omosessuali risalenti all’età di tre anni, a Belluno, mentre osservava i ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte a casa sua. E per definirlo s’inventa un nome arcano, suggestivo ed esotico, ‘teta veleta’ (thethe in greco antico significa ‘bisogno, mancanza’ e il critico letterario Gianfranco Contini gli aveva insegnato che era sinonimo di ‘sesso’): “Era il senso dell’irraggiungibile, del carnale, qualcosa come un solletico, una seduzione, un’umiliazione”. Lo colpirono soprattutto le gambe dei ragazzi, “nella parte convessa interna al ginocchio – spiega Pasolini – dove piegandosi correndo si tendono i nervi con un gesto elegante e violento. Vedevo in quei nervi scattanti un simbolo della vita che dovevo ancora raggiungere: mi rappresentavano l’essere grande in quel gesto di giovanetto corrente. Ora so che era un sentimento acutamente sensuale. Se lo riprovo sento con esattezza dentro le viscere l’intenerimento, l’accoratezza e la violenza del desiderio”. E Teta Veleta sarebbe diventato il titolo di un eccentrico romanzo scritto da Laura Betti ed edito da Garzanti nel 1979, quasi un’autobiografia onirica in cui l’influenza di Pasolini letterato e amico massimo è assai evidente.

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Sempre del periodo friulano sono varie opere in cui si delinea il precipitato letterario di una evidente componente autobiografica omosessuale: nel racconto Douce del 1947 l’alter ego di Pasolini incontra un ritrattista sedicenne, Angelo Dus, di cui s’innamora proponendogli di posare per lui. L’originalità è soprattutto nello stile, in cui si alternano i punti di vista dei due personaggi, e già si delinea quel rapporto d’amore dalle caratteristiche pedagogiche tipico del primo Pasolini. In Amado Mio, dell’anno successivo, pubblicato postumo e parzialmente con Atti Impuri, l’amore gay è fiammeggiante e passionale, privo di sensi di colpa. L’anno successivo si dichiara a un caro amico emiliano, Franco Farolfi: “La mia omosessualità è entrata oramai da vari anni nella mia coscienza e nelle mie abitudini e non è più un Altro dentro di me. Ho dovuto vincerne di scrupoli, di insofferenza e di onestà… Ma infine, magari sanguinante e coperto di cicatrici, sono riuscito a sopravvivere salvando capra e cavoli, cioè l’eros e l’onestà”. Il discrimine non solo biografico ma anche letterario della sua omosessualità è però il cosiddetto scandalo di Ramuscello: il 15 ottobre del 1949 Pier Paolo Pasolini viene denunciato per atti osceni in luogo pubblico per aver fatto sesso con alcuni ragazzi in un campo durante una festa patronale: viene espulso dal Partito Comunista e gli viene tolta la cattedra d’insegnante di scuola media (avrebbe subito più di trenta processi, nel corso della sua vita). Nel gennaio successivo si sarebbe trasferito a Roma con l’amata mamma Susanna dove conosce Sandro Penna e conclude il suo primo romanzo, Il sogno di una cosa intitolato inizialmente La meglio gioventù, pubblicato solo nel 1962, da cui espunge però la sottotrama di un prete gay, Don Paolo, che vive con terrore la propria omosessualità per paura di essere cacciato dalla Chiesa, pubblicata poi col titolo Romans. Nei successivi e celeberrimi Ragazzi di vita e Una vita violenta la visione dell’omosessualità cambia, fortemente condizionata dai traumatici fatti personali: è rappresentata infatti con disprezzo e denigrazione, dal punto di vista di ‘checche’ sottoproletarie e disagiate, come il Riccetto e il Caciotta (ma in Una vita violenta c’è anche un insegnante omosessuale che però il piccolo Tommasino va a denunciare). Il curatore dell’opera omnia pasoliniana, Walter Siti, sostiene, con riserve, che il solo erede letterario di Pasolini sia Roberto Saviano, quando invece forse è proprio lui medesimo, Walter Siti, la cui ossessione erotica gay non è il corpo proletario pasoliniano ma quello anabolizzato dei culturisti, pur sempre borgatari.

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In una delle più belle poesie di Pasolini, Supplica a mia madre, è contenuta la sintesi sublime del suo approccio carnale all’eros gay: “Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senz’anima”.

Anche il Pasolini giornalista, profetico anticipatore dei mali d’Italia, dalla corruzione al ‘genocidio culturale’ per la supremazia di un bieco e vorace consumismo, affronta la questione omosessuale opponendosi agli omofobi imperanti che lo descriveranno dopo l’assassinio come un ‘frocio morto assassinato’: “un rapporto omosessuale non è il Male – scrive in un articolo per Il Mondo dell’aprile del 1974 -. È un rapporto sessuale come un altro. Dov’è, non dico la tolleranza, ma l’intelligenza e la cultura, se non si capisce questo?”.

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In due articoli pubblicati su Tempo rispettivamente il 26 aprile 1974 e il 10 giugno 1973, raccolti negli Scritti Corsari, Pasolini recensisce sia il ‘libro pedagogico’ Gli omosessuali di M. Daniel e A. Baudry che il cult Un po’ di febbre scritto da Sandro Penna, definendolo “realmente il più grande poeta italiano vivente, forse con (Attilio, n.d.r.) Bertolucci”.

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Pure il teatro pasoliniano è intriso di tematiche queer, basti pensare al fassbinderiano Orgia col suicidio dell’anonimo Uomo protagonista che si impicca in abiti femminili dopo un monologo rivelatorio. Oppure la zoofilia di Porcile come metafora del non adeguamento all’eteronormatività sessuale. E sono molte le iniziative per ricordarlo nell’anniversario odierno dei 40 anni dopo la morte: il Teatro Argentina di Roma ospita Testimone Carnale, un ricordo di PPP a cura di Dacia Maraini, Antonio Calbi e Francesco Siciliano, nonché una maratona di letture dell’incompiuto Petrolio con 22 artisti tra cui Bernardo Bertolucci, Abel Ferrara, Ninetto Davoli e Iaia Forte. Si intitola invece Pasolini: una vita al confine il laboratorio condotto da Enrico Roccaforte presso il Teatro Mediterraneo Occupato di Palermo dal 2 al 9 novembre all’interno del Festival Teatro Bastardo organizzato dall’associazione culturale Sicilia Queer.

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È infine impossibile sintetizzare la pervasività della tematica omosessuale nell’opera cinematografica di Pasolini, dal documentario seminale Comizi d’amore (1965) in cui intervista gli italiani sulla percezione dell’omosessualità al dirompente desiderio bisessuale che annienta il concetto di famiglia borghese sconvolta da un misterioso ospite nel bellissimo Teorema; dalla liberatoria sensualità anche gay della Trilogia della Vita – Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle mille e una notte (1974) – al cupissimo sadomasochismo brutalmente radicale del testamentario capolavoro assoluto Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), che torna in 65 sale italiane nella versione restaurata dal laboratorio de L’Immagine Ritrovata della Cineteca di Bologna e dal Centro Sperimentale di Cinematografia, preceduta da L’intervista sotto l’albero di Gideon Bachmann a Pasolini sul set del film, messa a disposizione dagli archivi dell’associazione culturale Cinemazero di Pordenone.

La proteiforme opera di Pasolini e la sua indiscutibile attualità e necessità sono più vive che mai.

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