Il Paradiso non mi piace perché verosimilmente non ha ossessioni.
Alda Merini (1931-2009) – la “piccola ape furibonda”, come si definì nei suoi versi – nacque a Milano, da una famiglia di modeste condizioni economiche. Visse la sua infanzia in una casa in viale Papiniano, zona del celebre mercato milanese. Si racconta di lei che fu una ragazza sensibile e malinconica, brava a scuola: “perché lo studio fu sempre una mia parte vitale”, disse. Tentò di iscriversi al liceo, ma non superò la prova di italiano. Si dedicò allora allo studio del pianoforte, e ciò non fu forse irrilevante per la formazione della sua sensibilità per il ritmo e la metrica. Esordì come autrice a soli 15 anni, attirando l’attenzione e l’ammirazione di importantissimi scrittori italiani: Manganelli, Quasimodo, Pasolini. Si sposò frettolosamente con il proprietario di alcune panetterie: forse non lo amava, ma gli diede quattro figlie e fu per lei, per molti anni, casa, rifugio, ancora. Passò molti periodi di silenzio e isolamento, a causa della sua fragilità emotiva: fu internata per molti anni nell’ospedale psichiatrico milanese Paolo Pini (tra il ’65 e ’72). Raccontò tante cose nelle sue poesie e anche questo: l’esperienza estrema eppure così densa di umanità del manicomio.
PAROLA
Io trovo i miei versi intingendo il calamaio nel cielo.
Come ogni autentico poeta, Alda Merini aveva il culto della parola. Ma un culto particolare: coerente con il suo spirito indomito e poco convenzionale – disse di sé: “non sono una donna addomesticabile” – componeva i suoi versi oralmente, in modo libero, spesso dettandoli ad amici, magari al telefono. Un rapporto disinvolto e intimo, quotidiano con la poesia e la parola, un rapporto che non aveva bisogno di cornice, di formalità. Alda Merini prediligeva la poesia immediata, intuitiva. Una scrittura nata di getto, sull’onda dell’esperienza, degli eventi. Scelse spesso l’oralità a svantaggio della scrittura, scelse la relazione, il momento vivo, il contatto. Anche per questo i suoi testi col passare del tempo si restrinsero sempre più: divennero singole frasi, incantevoli aforismi.
CORPO
Il monte Sinai qualcuno lo confonde col monte di Venere.
L’erotismo è un tema fondamentale nel lavoro di Alda Merini, spesso trasfigurato in rapporto col divino, con Cristo soprattutto. I suoi versi sono un intreccio di temi erotici e mistici, col corpo come punto di incontro, di intersezione tra terreno sacro e terreno profano. La sua poesia è infatti una poesia carnale: il corpo viene caricato simbolicamente, riempito di senso e significati diversi, in una dinamica continua di scambio tra sé e il mondo, in cui la propria dimensione corporea diventa il palcoscenico di questo scambio. I momenti di euforia, eccitazione o sofferenza si manifestano attraverso immagini e presenze sempre vivide, mai astratte. Come ne L’Albatros:
Io ero un uccello
dal bianco ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci sopra,
non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te
le mie canzoni d’amore.
Lo stesso corpo di Alda Merini – invecchiato, appesantito eppure ancora desideroso di sensualità – divenne in qualche modo iconico, un emblema, un simbolo. La sua immagine divenne molto nota attraverso le tante interviste televisive in cui sedeva pigramente con la sigaretta sempre in mano. Alda Merini fu anche questo certo gusto per l’esibizione: si fece più volte fotografare nuda, rifiutando il moralismo e la dittatura dei canoni estetici.
DOLORE
Il dolore non è altro che la sorpresa di non conoscerci.
Uno dei suoi lavori fondamentali è La Terra santa del 1984. 40 poesie sul manicomio, assimilato alla Terra Santa biblica. Ha raccontato anche questo Alda Merini: la spersonalizzazione dell’ospedale psichiatrico, la separazione dalle figlie, l’esperienza dell’elettroshock. Alda Merini riteneva che il dolore psichico fosse una delle cose più sacre, un mistero, qualcosa che viola la logica e il linguaggio e ne rivela però anche la quintessenza. Proprio la sua fragilità emotiva la portò in terre sconosciute ai più: la sua mente diede vita a figure e visioni di realtà sommerse, invisibili. Questo fu uno dei grandi meriti della testimonianza poetica di Alda Merini: aver fornito una misura più umana alla follia. Aver mostrato che non è affatto detto che si riesca sempre a rispondere in modo razionale a contraddizioni, paradossi, conflitti interiori: esistono dolori che non riusciamo a guardare e tanto meno a spiegare.
PRIMAVERA
Sono una piccola ape furibonda.
Alda Merini è nata il 21 marzo, il primo giorno di primavera e tutta la stagione primaverile divenne per lei in qualche modo emblematica della sua condizione: la primavera come momento di risveglio, della natura che si ricorda di esistere e dei suoi poteri creativi. Risveglio che può, però, essere anche brusco, doloroso. Una sua famosa poesia celebra proprio attraverso la stagione primaverile la sua condizione di poetessa:
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
CASA
Ci sono notti che non accadono mai.
Di Alda Merini non furono note solo le poesie: fu noto il suo volto, la sua storia e fu nota la sua casa, simulacro spaziale della sua persona, proiezione della sua poetica. Alda Merini abitava a Milano in Ripa di Porta Ticinese 47, nella storica zona dei Navigli, in un piccolo appartamento affollato di cose, oggetti, ricordi di una vita e dalle condizioni igieniche non esattamente convenzionali. Le pareti affrescate di segni e di scritte: scriveva col rossetto sul muro Alda, per appuntarsi le cose, i nomi, parole importanti. Scriveva, sdraiata sul letto, fumava e riempiva il pavimento di mozziconi. Spesso cercava gli amici, li chiamava e dettava loro dei versi. Nel 2010 il Comune di Milano ha apposto una targa proprio sulla facciata di quella casa: “Ad Alda Merini. Nell’intimità dei misteri del mondo”.
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