Robert Mapplethorpe:
fare sesso con l’immagine

L'estremizzazione del sesso e l'eleganza della calla: la ricerca della perfezione secondo Robert Mapplethorpe.

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Come lo scrittore Philip Gerter suggerisce, fotografia e omosessualità condividono qualcosa: entrambe hanno faticato ad essere accettate ed entrambe sono emerse combattendo contro quei pregiudizi che le vedevano come inferiori, sia questo rispetto all’arte tradizionale o all’eterosessualità. Un artista che riuscì a portare l’arte fotografica allo stesso livello di pittura e scultura, dando al contempo una nuova dignità alla sessualità del corpo e alle sottoculture gay più esplicite fu Robert Mapplethorpe.

> Gallery: le migliori opere di Robert Mapplethorpe <

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Nato e cresciuto in una famiglia cristiana a Long Island (New York), Robert Mapplethorpe aveva un solo obiettivo in mente: diventare famoso trovando una voce tutta propria per farlo. Come lui stesso ha affermato: “the only point of being an artist is to learn about yourself” (“l’unico scopo dell’essere un artista è imparare qualcosa in più su sé stessi”), e in questa ricerca di sé, Mapplethorpe ha trovato il sesso, in ogni sua forma e dimensione. Nel suo processo di crescita come uomo e artista, sesso e fotografia si sono mescolate ad un punto tale da diventare uno il propulsore dell’altra.

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(Sx) Leather Crotch, 1980 ; (Centro) Lisa Lyon, 1981 ; (Dx) Jock Strap, Leather Jacket, Patrice #2, 1977

E’ proprio dalla sua esperienza personale che sesso, sadomasochismo e feticismo emergono per posare davanti alla sua fotocamera – dimensioni con cui entra in contatto grazie all’assidua frequentazione del bar BDSM newyorchese ‘The Mine Shaft’ dove trovava gran parte dei suoi partner sessuali e soggetti fotografici.

Tuttavia, il sesso è da considerare solo come il tramite di un processo artistico il cui scopo era ben altro: raggiungere la perfezione della forma in un mondo tutt’altro che perfetto. Tutto nelle sue fotografie è calcolato fino all’ultimo dettaglio: la luce, la posa, la gestualità… Che si trattasse di una calla o di un self-portrait in cui una frusta fuoriesce dal suo ano, poco importava: tutto doveva essere perfetto.

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Self-Portrait with Whip, 1978                                                 ‘Self Portrait’, 1981

Quest’ultimo caso (qui sopra a sinistra) ne è una chiara dimostrazione: la posa del corpo, la mano che tiene la corda come se si trattasse di una fotografia a scatto remoto, l’ombra della testa che rientra perfettamente sotto la mano semi-chiusa e soprattutto lo sguardo in camera. Non cerca di nascondere né la sua identità, né l’azione che sta compiendo, ma guarda dritto negli occhi l’osservatore.

 

Lo stesso discorso vale per quest’altra fotografia (qui sopra a destra): la centralità della testa, la luce sullo sfondo che richiama i dettagli bianchi della giacca da motociclista, le tonalità di nero e grigio sullo sfondo che richiamano quelle del capo indossato… tutto torna entro i confini di un pattern quasi geometrico.


La perfezione del soggetto riuscì infine a trovarla nella fisicità dell’uomo afroamericano. Tutto del corpo statuario di questi suoi soggetti era visto come fisicamente e visivamente attraente e per questo li immortalava senza intenti sociali o razziali: le loro forme scultorie servivano a perseguire il suo scopo ultimo di completezza artistica (e sessuale).

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Charles Bowman / Torso, 1980                                               American Ken Moody (With Orchid), 1984

Tra gli altri, un attributo in particolare sembrava richiamare l’interesse di Robert Mapplethorpe: il pene, di cui ne fece un elogio artistico senza eguali, trasformandolo a tutti gli effetti, in un totem da ammirare e adulare.

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Alistair Butler, 1980                                                                                 Man in Polyester Suit, 1980

Un altro aspetto molto interessante della fotografia dell’artista è il tema del doppio, sia che si traduca nei binomi male-bene, buio-luce o diavolo-angelo o in altri ancora. Baudelaire diceva della bellezza, “que tu viennes du ciel ou de l’enfer, qu’importe” e lo stesso sembra pensare Robert Mapplethorpe. La stessa religione cristiana gli servì come fonte d’ispirazione per le sue fotografie sadomaso più controverse, specialmente le storie dei martiri cristiani.

Ma se da un lato il suo intento è quello di far emergere il lato più estremo in ogni persona, dall’altro non mancano soggetti puri – di ben altro genere e dall’eleganza unica: i fiori.

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Parrot Tulip, 1986                                                                     Calla Lily, 1984

Come dicevamo, non importa quale sia il mezzo: se Mapplethorpe riteneva il soggetto degno, ciò che importava era che lo avvicinasse sempre più al suo desiderio di ultimazione della forma.


La crescente fama spinse personaggi sempre più importanti a farsi immortalare dall’artista: tra gli altri, Andy Warhol, Carolina Herrera, Grace Jones, Brooke Shields, Deborah Harry… Si potrebbe dire che il suo percorso artistico seguiva due percorsi paralleli, uno commerciale e uno più personale. Questo binomio è possibile vederlo, sebbene precedente al suo grandioso successo, nell’organizzazione della sua prima mostra a New York. Fu la Holly Solomon Gallery ad offrirgliela nel febbraio 1977, sebbene si fosse rifiutata di mostrare le sue fotografie sadomaso. Questo non lo fermò di certo e assieme al suo compagno Sam Wagstaff, Robert Mapplethorpe ne organizzò una separata lo stesso giorno allo spazioThe Kitchen’ dove vennero esposte.

Queste sono le due foto che furono utilizzate per rappresentare l’una e l’altra mostra:

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Pictures / Self-Portrait, 1977                                                  Pictures / Self-Portrait, 1977

Lo stesso artista riconosceva l’importanza di separare le sue opere più esplicite dalle altre quando possibile, perché cosciente del potere che il sesso ha sulle persone: fiori e ritratti sarebbero stati sopraffatti, sebbene degni di comparabile attenzione.

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(All pictures © Robert Mapplethorpe Foundation)

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