Fino a venerdì all’Università degli Studi di Milano sarà visibile la mostra Cercando il paradiso perduto di Giovanni Rodella con la presentazione del libro di Felix Cossolo 40 anni in movimento 1975-2015: inaugurazione stasera alle 19.
L’iniziativa del collettivo LGBT GayStatale e sostenuta dall’università, raccoglie un centinaio di scatti che raccontano i passi del movimento LGBT italiano dal 1976 ad oggi. Dalle prime esperienze radicali e libertarie, alla riflessione politica del Fuori!, dal confronto con il dramma dell’Aids, all’affermazione dei Pride.
Giovanni Rodella, autore di questa immensa memoria fotografica, racconta così i primi scatti di un’Italia arcobaleno ancora bianco e nero: “A quel tempo era tutta una scoperta e un divenire. C’era sempre qualcosa di nuovo a cui aprirci e dovevamo combattere tutto quello che introiettavamo, a partire dall’omofobia… Il movimento era questo all’epoca, dai primi campeggi in Grecia, è stato un continuo portare avanti e aprirsi agli altri. Poi venne l’aids e per un decennio possiamo dire che ci fu una regressione”.
Come è cambiato il tuo approccio nelle fotografie di fronte ad un dramma così vicino e così grave? “Mi ha cambiato profondamente. Si è persa sicuramente un po’ di trasgressione, o meglio di complicità tra i gay. C’era un secondo linguaggio, un dire non dire. Guardando le foto uno vede certe passioni più spontanee, più voluttuose, che poi non ci sono più state”.
C’è uno scatto a cui sei più legato? “Sicuramente ai campeggi, dove mi sono sbizzarrito a riprendere di tutto un po’. Ho anche vinto il mio pudore rispetto al nudo, ma bisogna anche dire di queste esperienze che i gay non è che potessero fare molto di più all’epoca, neanche una piuma. Ivan Teobaldelli mi ha ricordato che nel ’76 a Parco Lambro per esempio vennero buttati all’aria i banchetti dei collettivi omosessuali milanesi. Si capisce bene con quale forza bisognava reagire”.
Che biglietto da visita vorresti lasciare a chi viene a vedere la mostra? “Sono molto orgoglioso della mostra in Statale, perché è un’istituzione pubblica e quindi c’è un passaggio che prescinde dall’interesse. Oggi si torna a parlare della paura di mettersi in mostra a tutto corpo, a tutto nudo. Gli ebrei si battono per la propria religione, i neri per la propria pelle, noi per cosa ci battiamo? Per la nostra sessualità e quindi è quello che normalmente dobbiamo far valere. Non tanto il corpo in sé, quanto la sessualità che ancora oggi mette a disagio”.
Pensi a chi chiede pride sobri? “Quando ci dicono è meglio che vi copriate, questa è una cosa che è in contraddizione con le rivendicazioni fondamentali e non voglio sembrare quello che vuole tornare alle origini, dove abbiamo dato tanto ma non abbiamo ottenuto nulla”.
Parlare di fotografia vuol dire parlare di memoria. Secondo te che senso può avere oggi ricordare un movimento come quello negli anni ’70 e ’80, che naturalmente aveva una carica politica molto più marcata? “Giovanni Dall’Orto mi dice spesso che ho interpretato l’anima pre-arcigay. È vero io ho vissuto esperienze diverse, legate ai radicali. Oggi nessuno ha più l’imprimatur su qualcosa o qualcuno: la sinistra non ha preso di petto un tema che avrebbe dovuto essere affrontato anni prima. Penso che sia un bene che ci siano aperture in tutti gli ambiti politici, ognuno con la sua interpretazione. Sempre che non sia repressiva chiaramente. L’importante è mantenere una coscienza politica”.
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