“Non sono amiche, sono leccafiche”. (E non fate quelle facce)

Le parole giuste hanno proprietà salvifiche e liberano realtà vivide, ampliando il mondo

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4 min. di lettura

Il testo che vi proponiamo qui di seguito è stato scritto dall’autrice del blog Slavina , pornoattivista italiana che vive in Spagna. È una interessante riflessione sull’uso delle parole, specialmente per chi educa bambini (come genitore e non solo) e sugli stereotipi a cui i più piccoli sono sottoposti quotidianamente. Buona lettura.

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L’eteronormatività obbligatoria uccide. Non esagero. Voglio ricordarlo perché spesso osservo che non ce lo abbiamo sufficientemente presente quando ci relazioniamo coi bambini e le bambine. Come se le bandiere con l’arcobaleno, il glamour drag e i coriandoli del Gay Pride fossero una specie di escrescenza frivola, il prodotto di una serie di freaks simpatici, il buffone frocio del re e non un’articolazione politica molto seria. Ho visto come un amico etero – di questi etero senza dubbi, senza nessuna breccia – recriminava a un’amica lesbica la sua supposta viltà per non uscire dall’armadio sul posto di lavoro, sapendo che il suo migliore amico del liceo si era suicidato a causa del rifiuto della sua famiglia. Potrei darvi molti esempi di questo atteggiamento, però non ce n’è bisogno, tutte li conosciamo. Osservo con orrore che delle donne che stanno insieme in una relazione di coppia con frequenza si continua a dire che sono “amiche”. Non sono “amiche”, signori, sono leccafiche, come leggevo l’altro giorno in una foto di uno striscione della manifestazione dell’Orgoglio a Madrid.

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Per questo quando a mio figlio qualcuno chiede maliziosamente se le piace qualche bambina della sua classe o se ha la “fidanzata”, mi si gela il sangue. Per questo quando mio figlio gioca con le sue amiche e qualcuno fa un commento sessualizzando la loro relazione, incastrandola in un modello romantico ed eteronormativo, mi viene voglia di scuotere con violenza quella persona e gridargli “Ma sei idiota?”. Punto primo: non dare per scontato che mio figlio sia eterosessuale. Punto secondo: non dar nemmeno per scontato che mio figlio sia gay. Punto terzo: fatti gli affari tuoi e mantieni la tua immondizia eteronormativa lontana dalla mia famiglia. Non dare per scontato che aver costruito un nido d’amore con un uomo eterosessuale significhi che io abbia superato la mia “fase lesbica” o che il padre di mio figlio sia un uomo stile John Wayne, perché magari è più frocio di quello che pensi. […]
Sia come sia, e parlando chiaro: eterosessuale non significa eteronormativo (Grazie a Dio!) sebbene ci sia bisogno di lavorare duro perché non sia così. In questo nido strampalato il glitter e le cicatrici sono benvenute. Non dare per scontato che perché a mio figlio faccia impazzire il rosa questo determinerà il suo orientamento sessuale. Capito?

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Dopo il primo amore – non corrisposto – con Mariona, la bimba bionda coi codini, ce ne furono altri, uomini e donne. E, con loro, una lunga decostruzione del mio armadio. Ho tolto ogni singolo chiodo che teneva in piedi la struttura con molta difficoltà, a volte lasciandoci la pelle, con le dita maciullate. Ma anche con immenso piacere, libertà e godimento. Le stesse sensazioni che vibrano nell’aria quando constato che il padre postpatriarcale ha una relazione profondamente epidermica con mio figlio. Quando operarono mio figlio di criptorchidia, in sala rianimazione, chiamava suo padre, non me. L’infermiere commentò che era un caso inusuale, si suppone che i bambini chiamino la mamma. Come spiegargli che l’uomo che non si compromette sensualmente, che si contiene, quello con la pelle dura, è vincolato intimamente con la mascolinità tradizionale. L’uomo che non sa toccare altri uomini, che non si permette di godere di questa carezza – sebbene identificandosi come etero – che si irrigidisce quando l’altro gli propone un abbraccio che magari dura più del consentito… ha semplicemente mangiato il seme dell’omofobia. Per questo considero che la tenerezza tra il mio compagno – quest’uomo eterosessuale – e mio figlio è politica.

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Ogni bacio, ogni abbraccio, ogni “ti amo” tra un padre e qualsiasi figura mascolina che formi parte della quotidianità di mio figlio fanno che l’armadio, questo pezzo scomodo del corredo che la società e noi stessi, quasi per difetto, lasciamo alle nostre creature, sia più facile da smontare, più fragile.
Questa tenerezza maschile compie anche un’altra funzione: pone in evidenza la sterilità simbolica del macho. Il macho etero, il protagonista dei film porno mainstream, il patriarca e il mini-maschione che si nega a giocare a cambiare pannolini perché gli sembra sconveniente, diciamolo apertamente: è un gran represso, soffre di frigidità simbolica. Non gode, finge di godere. Non si compromette, si mutila per non sentire. Che qualcuno rompa il suo armadio con un’ascia! Magari a mio figlio bastasse un soffio per rompere il suo, se un giorno ne avrà bisogno. In questa casa non aspetteremo di scoprire i tagli sulle sue dita, cominciamo a soffiare da ora, come il lupo ambizioso dei Tre porcellini (in questo caso i porcellini si chiamano Patriarcato, Eteronormatività e Violenza Patriarcale) per lui e per tutti i bambini e le bambine che domani faranno di questo mondo un posto migliore.

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