Il sessismo nella pubblicità italiana: perché andiamo avanti rimanendo indietro?

"La donna italiana resta dipinta come un oggetto sessualmente disponibile, in preda ad appetiti che non riescono a placarsi, eccitata di fronte a un anticalcare".

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5 min. di lettura

di Marianna Tognini

Ricordo, lo scorso luglio, che – mentre andavo a un matrimonio in direzione Modena su uno sgangheratissimo regionale privo di aria condizionata – ascoltando Spotify sono incappata nello spot radio di Banca Mediolanum: una voce di donna descriveva la figata di poter accedere alla propria banca online sempre, anche mentre sta facendo tutt’altro, tipo “cucinare il sugo”.

Ora. Che io sappia non esistono degli orari in cui, se provi a usare l’online banking, uno gnomo ti dice «Eh no, a quest’ora no. Riprova più tardi». Dando per scontata la condizione di cui sopra, ognuno è poi libero di loggarsi quando vuole, mi pare. Anche quando è sul cesso, a quanto ne so. Ma la cosa peggiore di questa apparentemente “innocua” pubblicità risiedeva nell’affermazione «Mentre faccio il sugo»: quattro parole che pesano come un macigno sullo stereotipo femminile nutrito da anni e anni di pubblicità dal gusto stantio. Davvero, “il sugo”? Insomma, mica «mentre sto lavorando in ufficio a un progetto importante», o «mentre sto andando a una festa», o «mentre sto leggendo un libro». No. «Mentre faccio il sugo».

Che la pubblicità italiana sia una delle più sessiste al mondo è ormai noto ad addetti di settore e non: la mia esperienza personale con i bonifici online mentre si sta preparando una squisita amatriciana non è infatti che l’ennesima goccia in un oceano fatto di modelli discriminanti e sessisti, dove ad avere la peggio è, quasi sempre, la figura femminile. Nel 2013, Massimo Guastini, l’allora Presidente dell’Art Directors Club Italiano, in collaborazione con l’Università Alma Mater di Bologna e Nielsen Italia, ha coordinato l’indagine «Come la pubblicità racconta le donne e gli uomini, in Italia», e i dati emersi sono a dir poco sconfortanti. In un mondo che – seppur lentamente – si evolve, la donna italiana resta dipinta come un oggetto sessualmente disponibile, in preda ad appetiti che non riescono a placarsi, eccitata di fronte a un anticalcare in grado di sgrassare anche le peggiori incrostazioni, infervorata da detersivi capaci di rimuovere le macchie di sporco più ostinate, superficiale, limitata e imprigionata in cliché duri a morire.

Nel gennaio 2012, Rashida Manjoo, relatrice speciale dell’ONU, in un rapporto sulla violenza di genere nel nostro Paese, sottolineava che «con riferimento alla rappresentazione delle donne nei media, nel 2006 il 53% delle donne comparse in TV era muta; il 46% associata a temi inerenti il sesso, la moda e la bellezza; solo il 2% a temi sociali e professionali», e la ricerca di Guastini, a distanza di ben sei anni, non fa che confermare tale affermazione. Basandosi sull’analisi di circa 20mila campagne tv, radio, stampa, affissione e web, lo studio ha infatti identificato 12 tipologie narrative femminili, e 9 maschili: nel primo caso, l’81,27% delle pubblicità ha rappresentato quelle che sono state definite “modelle” (portatrici di un ideale di bellezza passiva), “grechine” (una bellezza decorativa che però non dice nulla), “disponibili” (in atteggiamenti di esplicita disponibilità sessuale), “manichini” (ritratto del corpo femminile o di porzioni di esso, per omaggiare un punto di vista voyeuristico), “ragazze interrotte” (quindi annullate in quanto persona) e “preorgasmiche” (in espressione di piacere sessuale). A quanto ammonta la somma delle suddette categorie per gli uomini? Non arriva manco al 20%, dato che le figure maschili vengono per la maggior parte presentate come professionisti e solo nel 4,3% come padri… il che comunque dà loro una personalità, uno spessore e delle competenze che alle donne non sono affatto concesse.

C’è da chiedersi se la pubblicità stia davvero raccontando il nostro Paese, dove da oltre 20 anni le donne si laureano di più e più in fretta degli uomini, e dove il 67% dei voti di laurea superiori a 106 sono presi da donne. Eppure… eppure, pare che il sapere usare il proprio cervello debba rimanere una dote completamente svincolata dall’aver cura di sé e del proprio aspetto. Anzi, che l’una escluda l’altra. Senza poi tenere conto di tutte le campagne che utilizzano doppi sensi, giochi di parole (val la pena citare quel «Gallina che canta ha fatto l’uovo», per il lassativo Eva/qu) e un’ironia troppo spesso pesante, che alimenta i sottintesi, la discriminazione e una sorta di sottomissione e sopraffazione sessuale ormai data per scontata a livello comunicativo e pericolosamente accettata a livello sociale. Che sfocia – nei casi più estremi – in violenze che rimangono taciute o che vengono giustificate, di cui il «Aveva la minigonna, se l’è cercata» ne è la più drammatica conseguenza.

Ma se Atene piange, Sparta di sicuro non ride: dopo che, nel settembre 2013, Guido Barilla commise l’epic fail passato alla storia in cui dichiarava che mai avrebbe fatto spot con famiglie omosessuali, molti brand si sono lanciati in messaggi pro LGBT, tra cui multinazionali del calibro di Vodafone e Findus. Il dubbio che si tratti di abili strategie di marketing però rimane, anche alla luce delle situazioni rappresentate, che spesso si limitano al siparietto pseudo-comico volto più a far scalpore che a dipingere la normale evoluzione della società e con essa della famiglia. Un’eccezione è forse costituita dalla celebre annuncio Ikea datato 2011, in cui una coppia di uomini, ripresa di spalle, si teneva per mano. Il titolo recitava: «Siamo aperti a tutte le famiglie». Giovanardi non la prese bene, e definì il messaggio «Un’entrata a gamba tesa contro la nostra Costituzione, offensiva e di cattivo gusto», a cui il responsabile relazioni esterne del marchio replicò con grazia e intelligenza: «Ikea non offende la Costituzione e non è contro la famiglia citata dall’articolo 29, che “è una delle famiglie”. Noi abbiamo a che fare con una realtà quotidiana in continua evoluzione, ci sono tipologie di famiglie molto variegate. Ikea quindi completa e aggiunge altre famiglie della realtà domestica, come quelle delle coppie di fatto, dei single, quelle composte da nonni e nonne. Tutte famiglie, queste, riconosciute anche dall’Istat». Nella campagna stampa e affissione non c’era traccia di morbosità, di furberie, di maliziose strizzatine d’occhio o di forzature, e il suo successo ha dimostrato a tutti – addetti al settore, clienti, consumatori – che sviluppare una comunicazione autentica, volendo, è possibile.

Non so come si possa uscire da un simile circolo vizioso che contribuisce a creare, appunto, una rappresentazione “viziata” della realtà: spesso chi commenta con fervore le pubblicità sessiste in cui si imbatte, tende a incolpare in maniera assai diretta e cieca i pubblicitari che le creano, dimenticandosi che dietro di loro si cela un cliente irremovibile con esigenze molto specifiche, esigenze da cui scaturiscono poi i risultati che – giustamente – indignano il pubblico e contro i quali ogni battaglia risulta persa in partenza. Con questo non intendo deresponsabilizzare i creativi che lavorano in agenzia, ma ribadire che chiunque abbia accesso ai mass media, ha allo stesso tempo un’enorme responsabilità sociale, che implica per forza di cose un’enorme consapevolezza: un investimento medio di circa 30 milioni di euro al mese non può, e non deve, raccontare le persone – siano esse donne, uomini, omosessuali, lesbiche o transgender – come delle macchiette ingabbiate in ruoli predefiniti, scorretti e soprattutto non veritieri. Lo storico pubblicitario Bill Bernbach sosteneva che «Tutti noi che per mestiere usiamo i mass media contribuiamo a forgiare la società. Possiamo renderla più volgare. Più triviale. O aiutarla a salire di un gradino», e in tal senso gli fa eco Pasquale Barbella, copywriter italiano, secondo il quale «Nel momento in cui un inserzionista qualsiasi acquista spazi pubblicitari sui giornali, sui muri, sugli schermi, alla radio o altrove, egli diviene di fatto – nel bene e nel male – un operatore culturale. Non più soltanto produttore di automobili o bevande, ma anche diffusore di idee, commentatore, opinionista, istruttore, propagandista, divulgatore di principi e di visioni del mondo. Un inserzionista che sia minimamente consapevole della bomba che ha comprato e che adesso stringe tra le dita dovrebbe farne un uso oculatissimo». Sembrano discorsi fatti l’altro ieri, ma in realtà il primo è classe 1911, il secondo 1941, ed entrambi riflettono i grande controsenso della pubblicità italiana contemporanea: un costante andare avanti, rimanendo però sempre e comunque indietro. Ai posteri, l’arduo compito di operare un’inversione di tendenza che ribalti gli stereotipi e sia lo specchio reale dei nostri tempi.

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Valium 19.2.17 - 9:15

Il sessismo nelle pubblicità esiste ma è solo l'effetto finale della cultura imposta nella vita. Non si può proibire il sessismo, bisogna educare all'affettività, ad esempio smettendo di comprare Libero quotidiano.

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Giovanni Di Colere 19.2.17 - 8:11

Chi ha scritto l'articolo non sa o non vuole sapere come funziona il mercato e la società. Ma nemmeno la natura umana. Faccio un esempio: qui in Inghilterra la Brexit ha vinto soprattutto per due grosse fette di società e cioè a) chi non vuole immigrati ed è convinto veramente che uscire dall'Europa avesse a che fare con gli immigrati di tutto il mondo e b) chi "I want my country back" cioè la vecchina conservatrice del merry England che pensa di tornare agli anni '60 con le once e i galloni o il manovale di sinistra convinto che gli rimetteranno le fabbriche delle automobili e di acciaio più antieconomiche e puzzolenti del pianeta che la Thatcher ha fatto chiudere. La verità per questa gente non ha nulla a che vedere con la realtà. Ci sono donne che si vedono prede dominate e uomini maschi alfa e se un messaggio cerca queste nicchie se ne frega di chi non si vede così. È una legge banale che se non si capisce o si detesta una pubblicità non è rivolta a noi. Se poi ci parlate con certi maschi etero sventra passere sono persone ridicole e orribili che nessuna "gnocca" si filetebbe neanche per un caffè ma del resto anche il web è pieno di repressi aggressivi e violenti omofobi e razzisti che si nascondono dietro a parole di cui si eccitano come tanti pervertiti 2.0. Quelli delle pubblicità sono semplicemente i loro padri e le loro madri idioti 1.0 che vivono la loro verità 1.0

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