‘Bisogna essere duri senza perdere la tenerezza’, come titolava una celebre biografia su Che Guevara, ormai certamente e giustamente sconosciuta a quei ragazzi del ’99 che sono il target del designer venuto dalla Russia, con amore.
Altri socialismi e altre rivoluzioni, altre latitudini.
Resurrezione forzosa di marchi sporstwear dormienti ma mai dimenticati: Fila e Sergio Tacchini fino al coup de théatre di Robe di Kappa.
Ricostruzioni chirurgiche di outfit che io e i miei compagni, provinciali e figli di una sinistra che sarebbe poi diventata radical forse anche per questa fissa del riutilizzo, sfoggiavamo in seconda media nello spogliatoio della palestra della scuola.
Senza sapere cosa fosse un outfit.
Mix and match di capi comprati in svendita e costosi capricci ormai dismessi dai fratelli maggiori, che si erano potuti godere lo sperpero craxiano.
Ricordi di umori ormonalissimi e deodoranti a stelle e strisce.
I riferimenti di Gosha sono certamente altri: bambini sperduti dopo il crollo del muro che vagano tra i monumenti in rovina del razionalismo socialista, sulle ali di una perestrojka che è ancora tutta una scommessa.
Ma la forza, oltre ai ricordi didascalici delle divise della Squadra Unificata alle olimpiadi di Barcellona del ’92, è in quelle taglie mai perfette, mai fittate.
Nei loghi daywear sfoggiati come gradi militari e nella sfacciataggine ostentata di sigarette tenute tra denti da latte.
In tutto quel che potevamo essere prima che la storia facesse il suo corso.
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