Poteva succedere. Doveva succedere. E infatti è successo. Dimezzare gli appuntamenti e raddoppiare i contenuti. Dal 2017 Gucci e Bottega Veneta saranno gli apri pista per il nuovo corso del calendario fashion unendo le sfilate uomo e donna. Le ragioni più prosaiche sono sotto gli occhi di tutti. Il carrozzone della stagionalità trimestrale che ci si porta dietro dagli anni 90 non è più sostenibile in tempi post crisi. O, per meglio dire, è sostenibile ma non più profittevole. I social hanno fatto a pezzi il wow factor sul nuovo che viene proposto, consegnandolo tempo zero dagli show alla discussione nel merito e rendendo i capi che arrivano al retail già giudicati. Non manca certo la parte desiderabile, ma chi può permettersi di acquistarla, la moda, si sente in un certo senso il morso in bocca di un tempo che non vuole dover rispettare.
Da una parte c’è la storia dello styling, con brand come il fu Saint Laurent di Hedi Slimane che ne hanno fatto bandiera. Sfilate manifesto a cui ispirarsi, con giovani e squattrinati appassionati ai quali bastava, il giorno dopo la sfilata, ravanare in qualche thrift shop per cavalcare l’onda della coolness. E arrivare anni luce prima di fashion victim e redattrici rattrappite, che certo avrebbero poi indossato i pezzi originali una volta arrivati in negozio, statement di potere e di lusso, cosa che la moda è stata e continua a essere, ma sull’onda discendente della parabola dello zeitgeist.
E con tutti quei soldi questo può essere anche frustrante, vien da immaginare.
Dall’altra i nuovi mostri che hanno unito street style e high fashion. Demna Gvasalia che prima con Vetements e ora anche con Balenciaga decide di offrire tutto e subito. I buyer acquistano a porte chiuse prima della presentazione, il giorno dopo lo show (o quasi) tutti i pezzi sono nei negozi. L’hype non perde un briciolo di smalto. Lo vedo. Lo voglio. Lo compro. E se si fa cassetto con sterminate produzioni di capi basic entry level a prezzi folli, felpe in jersey da 500 euro per intenderci, i pezzi cult della sfilata poi prodotti sono pochissimi, che chi li vuole e se li può comprare deve presentarsi in negozio o mettersi davanti ai siti degli e-commerce con il coltello tra i denti.
La trovata per quanto possa sembrare elementare accontenta tutti, i fan di Justin Bieber con la felpa Champions e le blogger da 10m con i trench con la spalla scesa.
Ci voleva tanto? Era così difficile arrivarci? Forse no, ma forse questo è anche dimostrazione di come il sistema moda, che per definizione dovrebbe essere creativo e rivoluzionario e insomma aperto a ogni tipo di sperimentazione, quei tratti che lo rendono spesso e forse troppo banalmente bersaglio di ironie da bar sport, sia, nei suoi meccanismi più profondi, fortemente reazionario.
Ci aveva provato il nuovo corso di Moschino in tempi non sospetti, a mettere in vendita il giorno dopo lo show le cianfrusaglie a tema fast food, ma si parlò più di una boutade dada, in linea con la storia ironica della casa, che di una bomba atomica nel mercato. Un innocuo divertissement.
Eppure era già palpabile la sensazione che quel genietto folle di Jeremy Scott, guida creativa di Moschino prodotto da Alberta Ferretti, ci stesse dicendo qualcosa. Poi sono arrivati i giovinastri in DHL e hanno fatto boom.
Non tutti però possono permettersi il qui e ora. Non può Gucci che ha bisogno dei tempi tecnici di produzione e di decantazione, di acquisto e di tutta la filiera che unisce presentazione ad acquisto.
Perché, anche e ancora nel 2016, stampare una felpa e ricamare un cappotto in seta richiedono capacità diverse. E quindi, tempi diversi.
Unire l’uomo e la donna sembra un modo per ammorbidire la schizofrenia e tornare a quote creative più normali.
Soprattutto per chi ha lo stesso designer per le due linee.
Non più frammentazione estetica e contenutistica alla ricerca di una novità che, con le maglie strette delle catene dei tempi di produzione diventa irraggiungibile, ma una vision densa e per così dire olistica che lavori su un periodo lungo.
Ci vogliono le palle, certo. E fiducia sulle persone e sui creativi, soprattutto, che devono sapere produrre una narrazione lunga e poliforme, senza potersi più permettere di azzeccarne solo una su quattro per tirare su il fatturato delle uscite meno felici. E no. Qui bisogna imbroccare una narrazione lunga, spalmata su più stagioni.
Ad Alessandro Michele, il creativo che ha rilanciato Gucci dopo gli anni sottotono di Frida Giannini, questa cosa sembra venire naturale come a nessun altro, ed era già chiaro che le sue collezioni non sono mai state uomo vs donna, quanto piuttosto uomo dentro donna e viceversa.
E quindi sì, il Gucci di Alessandro Michele diventa centrale, in questa mescolanza di stagioni, generi e consegne nei negozi. Come se la sua sovrapposizione di uomo e donna avesse spalancato praterie in cui, appunto, la narrazione diventa un fiume in piena che assorbe i meccanismi rapidi, voraci e persino bulimici del fast fashion imposti da Zara ed H&M, per trasformarli in un’estetica che solchi un nuovo corso.
Ed è grazie alla sua meravigliosa, sconvolgente e poetica attitudine verso i generi che diventano uno solo e per questo migliore della somma dei due, che il Gucci di Michele saprà consegnare alla storia un brand che sta cambiando l’industria e con essa il costume. Generando nuova bellezza.
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