Prada, Milano
e la somma delle parti

Se possiamo e dobbiamo sopportare l'ufficio, Miuccia sembra dire che l'unico modo per uscirne vivi è un tempo libero anarchico e dinamico.

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Nella narrazione lunga della storia di Prada, quella che ha appena sfilato sembra essere la collezione che tira le fila di quanto proposto negli ultimi dieci anni in una successione tanto creativa quanto schizofrenica. Atteggiamento che è stato per anni croce e delizia degli appassionati, che vedevano in quella serie di debutti secchi, di ecosistemi chiusi che si eliminavano l’un l’altro ad ogni presentazione, la linfa vitale del brand che teneva le redini della settimana milanese, e che forse più di qualunque altro rappresentava lo spirito del tempo della crisi. In un susseguirsi di understatement esasperato, lusso decadente e riferimenti sempre alti, altissimi. Speculazioni su tragedie contemporanee espresse sotto forma di metafore arditissime ma coerenti. Insomma Prada è sempre stata figa perché finita la sbornia capitalista della finanza creativa, e giunti alla resa dei conti col crollo Lehman Brothers del 2008, ha incarnato il modo migliore con cui la moda si potesse considerare un’espressione valida e utile anche in tempo di ristrettezze. E lo ha fatto essendo molto attenta, molto schierata, molto intellettuale e molto di sinistra (di quella sinistra che chi si dichiara veramente di sinistra detesta, e gli sputa addosso ‘radical-chic’ ma insomma ci siamo capiti).

Poi le cose sono cambiate. La Signora era probabilmente impegnata 24/7 nella realizzazione della sua Fondazione, celebrazione dell’estetica e dell’attivismo e di una vision precisa, eredità magnifica e anticipata e sicuramente uno degli ingredienti fondamentali che hanno fatto rinascere Milano, su cui nessuno, a parte visionari come lei, avrebbe puntato un centesimo.

È successo così in una congiuntura tanto inaspettata quanto favorevole che Milano si è fatta bella, contemporanea, desiderabile, ma etica e consapevole. Non dimentica della sbronza socialista questa volta si è aperta con buonsenso, attenta, inclusiva. E la gioiosa frenesia che si respirava nelle strade ha fatto venire voglia di cambiare pagina, di tirare un sospiro di sollievo. Così l’attenzione che prima era tutta per Miuccia e il suo spiegarci poeticamente i drammi economici e finanziari di cui eravamo intrisi, si è spostata verso le rivoluzioni esuberanti di Alessandro Michele che stava a Roma ma sfilava a Milano, le sue riflessioni psichedeliche sui generi, tema politico caldissimo che proprio nella Milano arancione di Pisapia aveva trovato terreno fertile, con l’istituzione del primo registro comunale per le coppie di fatto fino alla storica approvazione della legge Cirinnà.

Insomma c’erano troppa voglia e troppo bisogno di pensare alle cose belle che si potevano per una volta non solo sognare, ma fare davvero, per apprezzare davvero collezioni da guardare sfogliando un bigino di storia del ‘900.
Così si arriva a questa SS17, in cui pare abbastanza chiara la mission. Riconquistare mercato, puntare su un core business che per troppo tempo era rimasto nascosto sotto il concettualismo e tirare dritto. Una collezione in cui sembra Linea Rossa abbia preso il sopravvento, ordine di scuderia per riposizionare il brand. Senza dimenticare stilemi acquisiti nella storia recente, i sandali con le calze di lana che tanto schiamazzo fecero una decina d’anni fa in piena epoca Hedi Slimane, l’interno dei pantaloni a contrasto di quella collezione tacitamente dedicata ad Adriano Panatta, le stampe trash buttate là a sfregio, i lurex dell’uomo svuotato del proprio maschile che diventava affascinante presenza fantasmatica in un mondo femminile ma non femminista, le cuciture a contrasto dell’ultimissimo periodo e soprattutto gli zaini in nylon, elemento feticcio e seminale nel passaggio di Prada da valigeria artigianale a zeitgeist della moda, avvenuto negli anni ’80.

Ma come si fa a mettere insieme tutta questa pila di roba e rimanere credibili, mediando tra prodotto, unique selling proposition e la narrazione alta senza cui Prada non può esistere? Per farlo probabilmente bisogna essere Miuccia Prada. Il viaggio è il tema profondo che dona una coerenza stringente a tutta la collezione. Viaggio che si può tradurre con journey ma anche con trip. I ragazzi infatti si portano negli zaini una vita intera, par di capire. Se indossano leggins di lurex e sandali è perché nello zaino hanno l’abito indossato fino a poco prima in ufficio, con le scarpe appese fuori, come hiker metropolitani. E se si sono cambiati è evidentemente per andare a un rave, come il soundtrack afferma senza possibilità di dubbio. Con The Orb e Bjork che sostengono la passerella sulle ali lisergiche dell’ultima summer of love, quella dell’89, tra UK e Ibiza, nel regno dei cieli di Danny Rampling e apostoli. 

Collezione della mediazione, in cui pubblico e privato si separano, e se possiamo e dobbiamo sopportare l’ufficio, Miuccia sembra dire che l’unico modo per uscirne vivi è un tempo libero anarchico e dinamico. Una riqualificazione degli spazi lavoro/svago/sonno. A noi scegliere se perderci in una valle disabitata o in un campo tra ecstasy e sound-system. L’importante è perdersi.

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E, ciliegina sulla torta, endorsement gender-fluid in una settimana della moda che non ha mancato di schierarsi.

Prada

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