QUANDO GESU’ BALLA SUL CELLULARE

Furono i Jackson Five, col non ancora famoso Micheal Jakson, ad essere la prima "boy band". Poi ne vennero altre fino ai recenti Take That. Ora in America spopolano i chierichetti. Non manca il gay.

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Che cos’hanno in comune la chiesa cattolica e una boy band? La risposta è molto semplice: gli Altar Boyz (ovvero, traducendo dall’inglese, i chierichetti). Per dare senso a questa risposta, però, è meglio chiarire per bene che cosa è una boy band. Sin dagli albori della musica pop ci sono stati gruppi composti da tre/sei giovani rappresentanti del sesso maschile: basti citare i Beatles per gli anni 60 o i Duran Duran per gli anni 80.

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Nonostante la differenza fra i generi musicali, le mode e le varie aree di provenienza, questi gruppi avevano varie cose in comune: suonavano gli strumenti con cui accompagnavano i propri brani, il più delle volte avevano una leader solista di riferimento e facevano letteralmente uscire di testa il pubblico delle teenagers. Parallelamente, però, iniziava a definirsi qualcosa di diverso: tutto iniziò quando una famiglia afroamericana come tante decise di unire cinque dei suoi giovanissimi figli per formare un gruppo corale, che cantasse brani pop senza dover suonare strumenti, onde esibirsi in balletti ritmati. Era il 1962 e quei cinque fratelli diventarono i Jackson Five. Nonostante il successo strepitoso, nel 1980 il membro più giovane Michael (quel Michael Jackson) lasciò il gruppo che, ovviamente, si sciolse poco dopo.

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L’impresario musicale Maurice Starr fiutò l’affare, e per raccogliere i numerosi fans orfani dei Jackson Five in quello stesso 1980 creò i New Edition, un nuovo gruppo formato da cinque giovani di colore che si esibivano nello stesso stile dei Jackson Five. L’idea ebbe un grande successo (tant’è che Madonna divenne popolare anche esibendosi come supporter nei loro tour), ma nel 1984 il gruppo decise di abbandonare Starr. L’impresario non si diede per vinto e per ripicca decise di creare la risposta “bianca” ai New Edition: i New Kids On The Block, che a cavallo fra gli anni 80 e 90 ebbero un enorme successo (tanto che il termine “boy band” fu coniato per loro).
Il merito di Maurice Starr fu di costruire un personaggio su ogni membro: “l’dealista”, “il ribelle”, “l’stintivo”, “lo spiritoso”, “il cucciolo”, ecc. In poche parole, se prima il successo di un gruppo musicale era legato al carisma del cantante solista, in una boy band si moltiplicava per il numero dei suoi componenti. Il geniale impresario, però, sapeva bene che l’ascendente della boy band sul pubblico femminile aveva un’abbondante componente sessuale, e non faceva economia di allusioni soft, nei video come nelle performances dal vivo. Nel 1992, però, il Regno Unito rispose mettendo in pista i Take That, che nel giro di poco tempo eclissarono i New Kids On The Block e furono definiti “il maggior successo dai tempi dei Beatles”. Cos’avevano i Take That che mancava ai loro colleghi?
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Cos’avevano i Take That che mancava ai loro colleghi? Probabilmente il fatto che provenivano da una lunga gavetta nei locali gay, e questo – al di là dei meriti canori – li rendeva decisamente più ammiccanti e disinvolti nelle loro esibizioni (in cui non di rado mostravano i glutei e simulavano rapporti sessuali). Anche per questo i Take That non si fecero problemi a lanciare una nuova tipologia di boy band: quella con almeno un componente “sessualmente ambiguo” al suo interno. Da allora in poi centinaia di boy bands per tutti i gusti sono nate in tutto il mondo, tuttavia l’elemento “queer” nel gruppo è stato spesso una specie di portafortuna imprescindibile.
La vita media delle boy bands non è molto lunga, e anche se il loro scioglimento viene imputato ai più svariati motivi, spesso coincide con l’inevitabile “invecchiamento” dei suoi membri (che peraltro considerano questa esperienza solo un trampolino di lancio) e la conseguente perdita di ascendente sessuale sul loro pubblico di riferimento (composto perlopiù da giovani e giovanissime). Per tutti questi motivi l’idea di qualcosa che possa unire il mondo delle boy bands alla religione cattolica risulta decisamente balzana. Eppure da poco più di un anno negli Stati Uniti sta sbancando un musical incentrato su cinque religiosissimi ragazzi che vogliono sfondare nel mondo delle boy bands: gli Altar Boyz.

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I cinque protagonisti di questa dinamica commedia musicale dal retrogusto decisamente satirico e candidamente dissacrante sono: Matthew (il “devotissimo ragazzo” leader del gruppo), Mark (un “sensibilissimo” ragazzo, grandissimo fan di Cher), Luke (un incorreggibile ragazzaccio che beve di nascosto il vino destinato alle funzioni religiose), Juan (un caliente latino, incallito sciupafemmine) e per finire Abraham (un simpatico ragazzo ebreo che si chiede regolarmente cosa lo ha spinto ad unirsi ad una boy band cattolica).
Per circa novanta minuti i cinque amici animano lo spettacolo con canzoni e coreografie in perfetto stile boy band, con tanto di ammiccamenti sessuali, parlando però dal punto di vista di un gruppo di ragazzi “credenti e praticanti”. Probabilmente il grande successo di questo musical (che ha vinto anche il premio Best Off-Brodway Musical 2005) si spiega con la sua capacità di ironizzare – in maniera educata – sulla religione e i suoi luoghi comuni, i suoi problemi e le sue contraddizioni.

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Il fatto che poi la religione presa di mira sia quella cattolica è del tutto secondario, visto che il fondamentalismo cristiano negli Stati Uniti è molto diffuso e radicato a prescindere dalle specifiche confessioni. D’altra parte anche le associazioni religiose americane – che peraltro sono sempre all’erta – in questo caso non se la sono sentita di intervenire più di tanto, visto che comunque il musical fa anche pubblicità alla loro causa. Le menti dietro a questo progetto sono riuscite nel non facile compito di mettere alla berlina sia gli stereotipi religiosi, sia quelli legati alle mode giovanili, senza offendere o indisporre nessuno. Un vero miracolo, è il caso di dire, tantopiù che oggi lo spettacolo ha persino una versione coreana! Resta il fatto che, se per gli Stati Uniti questi mix di sacro e profano non sono una novità, molto difficilmente in Italia passerebbero inosservati. Mettere su di un palco cinque bei ragazzotti in canotta, coi muscoli guizzanti e tutto il resto, e farli ancheggiare cantando “Gesù mi chiama al cellulare” oppure “dio mi mette il ritmo dentro”, cozzerebbe (e non poco) con le immagini dei cardinali ottantenni che sono diventati il volto ufficiale della Chiesa Cattolica nel nostro paese. Ancor di più cozzerebbe se fra questi nuovi “portavoce della cristianità” ce ne fosse uno visibilmente queer. Probabilmente non è un caso se gli Altar Boyz sono un musical statunitense e non la boy band ufficiale dello Stato Vaticano.
Il sito ufficiale del musical è all’indirizzo https://www.altarboyz.com/
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di Valeriano Elfodiluce

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