Le leggende del rock lgbt – #2 – Lou Reed

Il grande Lou cantò in Kill Your Sons l'elettroshock subito per le sue tendenze omosex.

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Gay.it continua il suo viaggio musicale alla scoperta delle icone del rock dall’orientamento omosessuale e bisessuale, un lato poco esplorato ma non secondario nella cultura LGBT. Questa serie di contenuti è offerta dal nostro partner Janis Joplin .

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Il 27 ottobre saranno due anni che Lewis Allan Reed detto Lou (1942-2013) ha iniziato ‘a odorare di resurrezione’, per dirla con Montale. Se dovessi riassumere in un’immagine iconica lo spirito del grande, grandissimo profeta rock dei Velvet Underground, non penserei al classico combo giubbotto di pelle + RayBan ma al suo volto progressivamente scarnificato dalle sue stesse mani nel video che da piccolo mi aveva turbato non poco – era un manichino meccanico – della canzone per altro ridanciana No Money Down. Sì, perché la vita e la carriera di Lou Reed sono state una progressiva scarnificazione di sé e della sua visione del mondo alla ricerca dell’essenziale, del senso profondo, e quindi del suono perfetto (si pensi all’acustico Metal Machine Music, antesignano di ogni sperimentazione rumorista). Un’inesausta metabolizzazione artistica di una sensibilità vibrante, dettata anche dalla bisessualità inquieta: da adolescente fu costretto dai genitori, con cui aveva un pessimo rapporto, a subire un elettroshock a causa delle sue tendenze omosessuali (ma la sorella Merrill, dopo la morte di Lou, negò che fu ricoverato per questo motivo, bensì per una sindrome solipsistica che gli causava continui attacchi di panico).

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Lui stesso racconta la drammatica esperienza nell’ipnotica Kill Your Sons contenuta nell’album Sally Can’t Dance del 1974: “Tutti i tuoi psichiatri da due soldi ti fanno l’elettroshock – Hanno detto che ti avrebbero lasciato vivere a casa con mamma e papà invece che negli ospedali psichiatrici – Ma ogni volta che provavi a leggere un libro non riuscivi ad arrivare a pagina 17 perché avevi dimenticato dov’eri – Così non potevi neanche leggere“.
Il suo album più gay – e forse il più bello – è il secondo da solista, Transformer del 1972, perla glam prodotta dall’amico, complice e amante David Bowie, con cui si prese anche sonoramente a botte: le cronache biografiche testimoniano infatti un carattere piuttosto fumantino di Lou. Transformer contiene le immortali Perfect Day e Walk On The Wild Side, quest’ultima dedicata ai personaggi multigender della Factory di un altro grande amico di Lou, Andy Warhol, che avrebbe dovuto adattare per il teatro un libro di Nelson Algren intitolato proprio Walk On The Wild Side. Fu una delle prime canzoni diffusa a livello mondiale con espliciti riferimenti al travestitismo (Holly che “si depilò le gambe e lui divenne una lei”) e alla prostituzione maschile (“Little Joe non lo diede via mai gratis: tutti dovevano pagare e pagare”). Al transessuale Candy Darling dedicò anche la delicata Candy Says, poi reinterpretata insieme a Antony Hegarts. Il refrain della melodica Make Up: “Now we’re coming / Out of our closet / Out on the streets” divenne lo slogan più urlato nelle manifestazioni del Gay Liberation Front. Anche la cover fece scandalo, per la doppia immagine di un modello in versione femminile e maschile, con vistosa erezione sotto i jeans, subito censurata con la scritta-pecetta “Produced by David Bowie e Mick Ronson“.

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Ma la copertina più celebre della carriera di Lou Reed fu indubbiamente la prima in assoluto per l’esordio nel 1967 con l’album The Velvet Underground & Nico, disegnata da Andy Warhol (che produsse e sostenne il gruppo fondato con John Cale): quella banana inevitabilmente fallica che sarebbe rimasta nell’immaginario collettivo come imprescindibile anello di congiunzione tra il glam rock già seminalmente punk e la dimensione dell’arte pop esplicitamente warholiana. Brani come la leggendaria Heroin sulla sperimentazione delle droghe – soprattutto metedrina – che “lo facevano sentire come il figlio di Gesù” o la psichedelia sadomaso di Venus in Furs sarebbero diventati cult assoluti in breve tempo. Lou e John avrebbero poi omaggiato il loro Andy col concept album Songs for Drella uscito nel 1990, tre anni dopo la sua morte, interamente dedicato a lui (Drella era un nomignolo nato dalla crasi fra Dracula e Cinderell, ma Warhol lo detestava).

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Un grande amore di Lou Reed, ammantato di fatato mistero, fu la transessuale Rachel (si sa pochissimo di lei, a parte qualche foto e il suo nome anagrafico: Tommy), musa indiscussa dell’album Coney Island Baby, un sangue misto indo-messicano definito dal critico Lester Bangscon lunghi capelli neri, barbuta e pettoruta, grottesca” (si scusò poi della definizione, pentendosi per averlo scritto). Altre fonti – e i scatti arrivati fino a noi lo testimonierebbero – la descrivevano invece elegante e piena di personalità. Lou la conobbe in un night club del Greenwich Village: “C’era questa persona straordinaria, con una testa incredibile, emanava vibrazioni tutto intorno“. Rachel era estranea al mondo della musica, non apprezzava nemmeno in modo particolare il lavoro di Lou, e forse questa fu una delle ragioni che cementarono la loro relazione, garantendo a Reed un rassicurante spazio privato svincolante dagli eccessi dello show business. Lou ebbe comunque tre mogli, l’ultima delle quali, la celebre polistrumentista Laurie Anderson, l’ha accompagnato fino all’ultimo giorno (nel suo doc sperimentale Heart of a Dog presentato a Venezia parla del loro amore).

In occasione dell’anniversario della morte di Lou Reed, uscirà per Polydor ai primi di novembre il cofanetto The Matrix Tapes coi nastri registrati nel 1968 presso il club di San Francisco ‘The Matrix‘ e tra circa un mese sarà pubblicata la ristampa superdeluxe dell’album Loaded del 1970 in 6 CD.

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