Avevamo avuto il dubbio che la Palma d’Oro andasse in Oriente quando abbiamo visto arrivare sulle Marches la venerabile Cate Blanchett, impeccabile Presidentessa di Giuria, con uno strano e voluminoso abito-kimono rosso e nero. E così è stato: con un po’ di sorpresa (era favorito Capharnaum della libanese Labaki che si accontenta del Prix du Jury) il massimo riconoscimento è andato al dramma famigliare Shoplifters (Taccheggiatori) di Hirokazu Kore’eda, una sorta di Nanni Moretti giapponese, su una famiglia dedita a piccoli furti nei supermercati che accoglie in casa una bambina abbandonata per strada.
Grand Prix onestamente un po’ generoso alla simpatica commedia sarcastica BlacKKKlansman di Spike Lee sul razzismo anche omofobico del movimento Ku Klux Klan in cui s’infiltrano un poliziotto bianco (Adam Driver) e uno di colore (John David Washington, figlio di Denzel) che stana i leader del gruppo razzista al telefono spacciandosi per un loro accolito e sventando un attacco del Ku Klux Klan a un raduno del Black Panther Party. Un film da blaxploitation anni ’70 più riuscito e ritmato nel primo tempo, non annoverabile comunque tra le migliori opere del regista.
Ma anche noi non possiamo lamentarci: che fosse una serata in cui l’Italia sarebbe stata protagonista, si era già capito sempre sulla magica scalinata rossa, solcata dal cast di Lazzaro Felice e Dogman: il primo si è aggiudicato dalle mani di Chiara Mastroianni la migliore sceneggiatura andata ad Alice Rohrwacher, ex aequo con Three Faces di Jafar Panahi.
“Grazie a questa incredibile giuria, alla sua incredibile presidentessa e al festival che mi ha invitato di nuovo – ha dichiarato emozionata la regista fiesolana – e grazie ai produttori, a tutti quelli che hanno reso possibile questo film e questa sceneggiatura bislacca. Grazie per averla presa seriamente come i bambini prendono seriamente i giochi”.
Altro successo tricolore il riconoscimento per il migliore attore consegnato da un istrionico Roberto Benigni e andato a Marcello Fonte per Dogman di Garrone sul caso di cronaca nera anni Ottanta del canaro della Magliana: “Da piccolo a casa mia – ha detto in italiano l’attore calabrese – pioveva sulle lamiere. Io chiudevo gli occhi e mi sembrava di sentire degli applausi. Ora apro gli occhi e vedo che ci siete voi: sento un calore come in famiglia, mi sento a casa. Credo che la mia famiglia sia il cinema e ringrazio anche la sabbia di Cannes, di cui ogni granello è importante. Ringrazio Matteo (Garrone, n.d.r.) che si è fidato e ha avuto il coraggio, non so come, di darmi questo ruolo”.
Momento choc l’apparizione di Asia Argento per la consegna del premio alla migliore attrice andato a Samal Esljamova, l’attrice kirghisa del kazako Ayka: “Nel 1997 sono stata violentata da Harvey Weinstein, qui a Cannes. Avevo ventuno anni, questo festival era il suo terreno di caccia. Voglio fare la previsione che non sia mai più benvenuto qui. Anche stasera, seduti in mezzo a voi, ci sono quelli che devono ancora essere ritenuti responsabili della loro condotta contro le donne. Voi sapete chi siete, ma soprattutto noi sappiamo chi siete e non vi permetteremo di farla franca più a lungo”.
L’onda lunga del #metoo si fa ancora sentire.
Altri due premi sono andati alla rivelazione queer di quest’edizione, il dramma gender belga Girl che si era già aggiudicato la Queer Palm e il premio per il migliore attore nella sezione Un Certain Regard.
L’opera prima di Lukas Dhont sulla ballerina sedicenne Lara ingabbiata nel corpo maschile di Victor si aggiudica la prestigiosa Caméra d’Or destinata agli esordienti e il Fipresci della critica internazionale.
Il regista sul palco ha dedicato alla vera ragazza che ha ispirato il protagonista, definita “un’eroina” e l’acclamato interprete Victor Polster, al suo fianco, ha accettato la Caméra d’Or definendola entusiasta “un premio senza genere che ci fa molto piacere”.
Girl è stato acquistato per l’Italia dall’illuminata Teodora Film.
È stata un’edizione in cui il cinema lgbt si è dimostrato abbondante e vitale (c’erano ben 15 opere queer in concorso): peccato che sia stato escluso dal Palmarès l’emozionante Plaire, aimer et courir vite (Piacersi, amare e correre veloce) di Christophe Honoré sulle ronde amicali di tre omosessuali negli anni Novanta mentre la piaga dell’Aids miete vittime e seppellisce l’idea romantica di amore gay. Eppure questo melò un po’ troppo lungo e verboso, molto letterario – il protagonista si chiama Jacques Tondelli, si visitano le tombe di Koltès e Truffaut, l’incontro fatale avviene in un cinema mentre si proietta il magnifico Lezioni di Piano della Campion – vanta le più belle scene d’intimità omosessuale viste al festival, dolci giri amorosi in letti e vasche da bagno (la scena di sesso a tre che richiama il triangolo Tondelli-Betto-Fortunato nel romanzo Noi tre di quest’ultimo è in realtà molto casta eppure vitalmente testosteronica). Pare che la moda del sesso esplicito gay lanciato da La Vita di Adele sia passata, e ora gli autori di cinema queer sembrano più interessati a un tenero romanticismo comunque infiammato nello stile di Chiamami col tuo nome.
Bravissimi i protagonisti: Pierre Delandonchamps è dolce e vibrante nel ruolo dello scrittore Jacques Tondelli malato di Aids che convive col figlio ma s’innamora dello studente bretone Arthur, interpretato da Vincent Lacoste malinconicamente perfetto mentre Bruno Podalydès è ormai una garanzia da grande veterano del cinema francese. Ma c’è un quarto protagonista che è la città di Parigi, amata, solcata e desiderata per tutto il film, vera culla protettiva, la ‘graziosa piccola casa’ come direbbe Bruno Ganz/Verge nel film che resterà di quest’edizione, la sconvolgente magnificenza horror The House That Jack Built di Lars Von Trier in cui si vede la più bella immagine queer di quest’edizione che potete ammirare qui sotto: è finito il sogno di Cannes ma se l’Inferno fosse popolato da codeste creature, vorremmo forse tornare al Purgatorio quotidiano?
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