Non preoccupatevi, Gus Van Sant è tornato grande col suo nuovo, attesissimo e splendido film Don’t Worry.
Dopo due titoli che non erano molto nelle sue corde, l’irrigidito Promised Land e lo sbagliato La foresta dei sogni, il sublime maestro di Elephant coglie nel segno pur scegliendo una storia rischiosa perché sulla carta profondamente lacrimevole, quella del vignettista John Callahan (1951 – 2010), tetraplegico dall’età di 21 anni, alcolista, figlio di genitori adottivi e divenuto celebre per disegni dal sarcasmo macabro e politicamente scorretti pubblicati anche su Penthouse, amato e odiato allo stesso tempo. Lo interpreta con una performance da Oscar, calibratissima, l’ottimo Joaquin Phoenix, che torna a recitare con Gus Van Sant quasi vent’anni dopo Da Morire, in grado di rendere credibile l’handicap del protagonista ma senza premere sul pedale della commozione facile nonostante tutto il pathos che una vicenda del genere mette in campo.
Il cuore del film sono le riunioni presso la sontuosa magione dell’ereditiero gay Donnie (Jonah Hill, eccellente), lo ‘sponsor’, ossia il coordinatore di un gruppo eterogeneo di Alcolisti Anonimi in cui spiccano proprio John Callahan, un’alcolista obesa dai modi spicci, Reba (la sorpresa Beth Ditto) e un poeta omosessuale di colore specializzato in poesie oscene queer, Martingale (Ronnie Adrian). Dopo la diffidenza iniziale, gli sconosciuti riescono a confidarsi, a esternare il dolore a lungo taciuto, a trovare insieme un programma suddiviso in vari punti intesi come passi progressivi verso l’accettazione di ciò che si è vissuto e di ciò che rischia di rimanere imperscrutabile, come nel caso di John, ossessionato dal fantasma della madre di cui sa solo che è irlandese, ha i capelli rossi ed è una maestra. Il rimpianto per non avere conosciuto la madre si mescola al rimorso ruminativo per la sera dell’incidente, in cui a guidare l’auto finita contro un palo a 150 km orari non era lui ma un tipo appena conosciuto – lo interpreta con una certa misura l’irruente Jack Black – con cui sarebbe dovuto passare da una festa all’altra in una serata inondata da fiumi di alcol.
Gus Van Sant punta sui primissimi piani dell’espressivo Phoenix, catturandone l’essenza con un montaggio ispirato che mescola i piani temporali e una regia a tratti documentaristica; riesce a non essere banale neanche riguardo allo snodo sentimentale con l’infermiera svedese poi hostess Annu (una solare Rooney Mara), a cui sono destinate le scene più leggere con qualche virata eroticamente vitale.
Callahan realizzò molte vignette all’apparenza antigay-lesbiche – nel film se ne vede una destinata a Penthouse in cui si ironizza sulla mascolinità aggressiva e stereotipata delle dykes e un’altra su una bizzarra ispezione del colon – ma Callahan adorava andare oltre i limiti proprio per disturbare e suscitare il dibattito con tutte le categorie sociali, a partire proprio da quella dei disabili di cui faceva parte.
Al di là dello spirito caustico che rimaneva soprattutto sulla carta, lo spettatore empatizza inevitabilmente con l’umanità di John e si commuove: eppure l’effetto non ha nulla di forzato perché Don’t Worry evita ogni effetto strappalacrime e stempera il pathos con una buona dose di ironia.
Da vedere assolutamente.
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