Un paradisiaco sogno gay vince nella categoria cortometraggi hard la threesome edition del festival erotico torinese Fish&Chips.
Conclusasi ieri sera al cinema Massimo di Torino, la terza edizione del Fish&Chips fa registrare un buon successo di pubblico, oltre 4000 presenze. A vincere è stato l’abbacinante Flower di Matt Lambert, prodotto da Helix Studios, scelto dalla giuria composta da Maicol Casale, Lucia Leonardi e Irene Pittatore “per essere riuscito a mostrare, con una regia matura e originale, forme dell’intimità e della sessualità fra giovani uomini lontane da stereotipi di genere”.
L’incontro tra cinque baldi ragazzotti in un bar evolve in una partouze appassionata illuminata da luci dorate mentre impazzano le canzoni del gruppo queer Pansy Division. Un inno energico e vitale alla libertà sessuale gay e alla bellezza giovanile, quasi un Bel Ami sofisticato a stelle e strisce che conquista lo spettatore.
Una menzione speciale è stata assegnata a un altro bel cortometraggio che parla di sesso multiplo: We Are The Fucking World di Olympe de G., solare orgia bisessuale con nove partecipanti sul greto di un fiume, segnalato “per l’attenzione al tema del consenso e per aver saputo mettere al centro l’esperienza e il punto di vista dei performer. Un sorvolo fluido sulle sessualità etero e omo, con scambio di ruoli e rispetto per le preferenze e i limiti di ciascuno”.
Nella categoria dei corti soft, vinta dallo spagnolo Rol di Hammudi Al-Rahmoun Font, un’altra menzione è andata un’opera queer, lo statunitense Get The Life di Ozzy Villazón “per la capacità di mettere in luce tematiche poco esplorate e di trattarle con complessità, mettendo in relazione identità di genere, sessualità e, soprattutto, genitorialità, questione particolarmente sensibile per un soggetto transgender”.
Tra i lungometraggi è emerso il film più ironico e spassoso del concorso, il ruspante Un Grande Progetto del milanese Giuseppe Longinotti su una simpatica armata Brancaleone, capeggiata dalla caparbia pornostar Marika Ferrero, intenzionata a realizzare ‘il porno di una vita’ ma costretta a show mal pagati in club per scambisti e saune etero.
I giurati Flavio Armone, Maddalena Merlino ed Elisa Talentino lo definiscono “un film orgogliosamente indipendente che ci svela la precarietà e le contraddizioni delle produzioni hard low budget. Una storia che unisce spirito punk e tenerezza, porno proletario e senso di famiglia. Vero, fiero, ci dice che anche al di fuori del circuito main stream si può ambire con passione a un Grande Progetto”.
È stata segnalata anche la caleidoscopica video-fiaba LGBT svedese Vem ska knulla pappa? (Chi scoperà papà?), “per il dirompente immaginario sex positive e per la rappresentazione gioiosa e giocosa del sesso. Il film si è contraddistinto per l’estetica queer, teatrale, colorata ed esagerata, incarnando appieno lo spirito di Fish & Chips Film Festival”.
In chiusura è stato proiettato il porno lesbico Snapshot di Shine Louise Houston, prodotto dalla Pink & White, specializzata in hard saffico. Sprizza polposa carnalità questo finto thriller – la trama mystery è pretestuosa e risolta troppo in fretta – su una fotografa voyeuse, Charlie (la fascinosa Beretta James), che s’innamora della poliziotta butch di colore Danny (Chocolate Chip) e organizza con lei sedute di sesso collettivo mentre un pericoloso assassino riesce a infiltrarsi nel suo studio fotografico. Snapshot vanta una delle scene di sesso lesbico esplicito più lunghe in assoluto (circa venti minuti), al cui confronto La vita di Adèle è un film per educande: qua e là è piuttosto tediosello, ma le ragazze, in particolare, possono apprezzare lo charme delle protagoniste che danno, letteralmente, tutte se stesse per la performance davvero hot.
Fish&Chips si conferma una dei cineappuntamenti più curiosi e d’avanguardia, in cui abbondano le tematiche LGBT: circa un film su tre risultava d’interesse queer. Prevale un lesbismo decisamente disinibito, rivolto non solo più a un pubblico maschile etero (Indulgence, The Toilet Line, Crystal Clear) e una fluidità sessuale in cui prevale un’anima “gender” giocosa, spesso ritualistica e avulsa totalmente dall’idea di funzione riproduttiva, come l’intrigante Aspik, in cui la performer gender queer Finn Peaks si immerge in una teca ricoperta di gelatina.
Abbiamo visto due classici hard da antologia, il cult Salon Kitty di Tinto Brass con un Helmut Berger mai così bello e malinconico (memorabile la scena dell’omicidio nel bagno turco) e uno dei capisaldi della cosiddetta Golden Age of Porno degli anni ’70, The Opening of Misty Beethoven – A bocca piena di Radley Metzger, deceduto l’anno scorso. Un epocale trionfo di fellatio e cunnilingus per hostess e cameriere maialine in una sorta di Pigmalione hard in cui l’attore porno bisex Jamie Gillis ‘istruisce’ l’audace Constance Money per farla diventare una stella del circuito a luci rosse e ‘convertire’ un artista gay di cui invece si innamora.
Nell’interessante ma un po’ monotono documentario giapponese Bai Bai Boizu (Ragazzi a pagamento) di Itako scopriamo infine il mondo degli urisen, ragazzi che si prostituiscono con uomini nel distretto gay di Shinjuku Ni-Chome e si raccontano alla videocamera tra titubanze e remore, indossando sovente maschere per non farsi riconoscere. Molti di loro si dichiarano etero (le scene hard sono rappresentate con disegni in animazione), spiegano che l’omosessualità in Giappone è ancora un forte tabù e a trent’anni sono già considerati obsoleti per il mercato del sesso.
Il cinema queer si conferma ancora una volta pionieristico per quanto riguarda la produzione erotica e questa manifestazione riesce davvero a tastare il polso alle tendenze più innovative del settore: complimenti vivissimi agli organizzatori, in particolare alla direttrice Chiara Pellegrini, definita giustamente, durante la cerimonia di premiazione di ieri sera, “il punto G del festival”.
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