Il Pride e la sindrome della pasticceria

Alla parata del Pride si rimorchia, si balla e si canta. E sono anni che sento gente che con il piglio arcigno della più pudica delle educande trova tutto questo un atteggiamento poco "serio".

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Sul manuale del bravo omosessuale (che si presuppone vi sia stato consegnato alla nascita), proprio nel primo capitolo troverete una lunga lista di motivazioni che spiegano perché sfilare alla marcia dell’orgoglio gay è un impegno civile e responsabile. Sono tutte nobili motivazioni sulle quali nessuno potrebbe essere in disaccordo, a meno che non vi chiamiate Carlo Giovanardi. Molti però credono che ci si debba accostare all’evento con il rigore "morale" di una oblata alla processione del venerdì santo. Come se l’impegno politico fosse lesivo, incommensurabile e inaccostabile con la possibilità di andare anche per divertirsi, ballare lungo il percorso, fare nuove amicizie e, Dio non voglia, addirittura rimorchiare. Eppure, il bello di un Pride è che andarci è come andare da Ikea: ci entri per un motivo specifico ma poi torni sempre a casa con più roba di quanto pensavi.

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Nonostante credo che questo sia un buon approccio alla parata sono anni che sento gente che con il piglio arcigno della più pudica delle educande trova tutto questo un atteggiamento poco "serio" se non addirittura blasfemo. Ma pure fosse, se si andasse al Pride anche per rimorchiare, cosa ci sarebbe di male? In effetti lo scenario sulla carta sembra essere piuttosto allettante, perché ti troverai tra migliaia di maschi, la cui maggior parte sconosciuta, quindi ignari di quelle brutte voci che girano sulla tua reputazione e che ti hanno reso inviso ai tuoi concittadini come una Bocca di Rosa qualsiasi.

Ed è forse per questo che ogni anno c’è sempre un gran fermento. Una frenesia che precede l’evento dove più che prepararsi alle barricate sembra ci si metta in ghingheri per il ballo delle debuttanti. Ma del resto ogni gruppo ha il suo modo di affrontare le manifestazioni. C’è chi prepara molotov, chi unisce pollici e indici al grido di "io sono mia" e chi invece salta tra estetisti, parrucchieri (il cui impegno è secondo solo all’orda delle spose di maggio) e sedute in palestra al cui confronto un decatleta sembra un lanciatore di coriandoli.

Arrivati al giorno del corteo l’emozione è palpabile e, con l’aspettativa della fanciulla del sabato del villaggio che s’appresta alla festa per mirare ed essere mirata e rallegrarsene nel cuore, siamo pronti a lanciarci lungo i percorsi assolati del Pride (piccola annotazione personale: ma perché le trans di NYC non scelsero un più fresco settembre per ribellarsi?!).

Certo non saremo agguerriti come femministe anni ’70 o studenti universitari cileni, ma la tempra è persino maggiore ed è qui che si vede la superiorità della razza gay. Provasse infatti un etero a camminare per chilometri, con l’asfalto che si scioglie pur conservando un incedere fiero, non stentato, indossando outfit che prediligono l’apparenza alla comodità (cosa che ovviamente non vale per le lesbiche che hanno fatto dei sandali Birkenstock e delle salopette alla zuava la loro uniforme 4 stagioni), ballando praticamente ogni tipo di ritmo dalla house più aggressiva a Loretta Goggi, salutando un pubblico spesso perplesso con la grazia della principessa Kate e in tutto questo bilanciando lo sguardo fiero di chi rivendica il diritto a un matrimonio con quello maliardo di qualcuno che cerca di rimorchiare il bono che casualmente gli cammina, anzi, gli sfila, accanto?

A questo punto uno potrebbe immaginare che il gioco è fatto, che il dato è stato tratto e che conclusa la parentesi politica ci si possa abbandonare a un meritato riposo (biblico) del guerriero, giacendo con il nostro da lungi sospirato. In un mondo ideale sarebbe così, ma non nel nostro perché è a questo punto che diventiamo vittime della "Sindrome della pasticceria". Quando ti trovi così tante persone tra le quali doverne rimorchiare una soltanto (a meno che tu non sia un bulimico) diventa un’impresa ardua ed è così che si scatena la nemesi.

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Ricordate infatti quando da piccoli la mamma vi portava al forno e vi diceva: "scegli una pasta ma una soltanto" e tu passavi dieci minuti davanti alla vetrina dei pasticcini, desiderandoli tutti e vivendo l’imbarazzo di doverne mangiare solo uno e poi vostra madre spazientita vi portava via lasciandovi a bocca asciutta? Ecco, questa è una cosa che potrebbe capitare benissimo. Quando c’è troppa offerta, finisce che non si decide mai. Come una farfalla attratta ora dal profumo di un fiore ora dal colore di un altro finiamo quindi stremati alle 5 del mattino senza aver concluso un accidente. È per questo ormai che da anni ho capito una cosa: ai Pride, tanto più se affollati come quello di Madrid o il nostro Europride in svolgimento, è meglio puntare tutto sull’impegno civile sgolandovi fino a diventare cianotici per rivendicare i diritti negati perché per il resto, datemi retta, non si rimorchia mai e la possibilità di tornare a casa "a reti inviolate" è una certezza strettamente proporzionata all’alto numero dei suoi partecipanti.

di Insy Loan ad alcuni meglio noto come Alessandro Michetti

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