DAL BORDELLO AI LAGER

"Fuoco su Babilonia", sorprendente romanzo d'esordio di Valentina Brunettin. L'efebo Spiegel prospera in un bordello gay della Germania nazista, ma la guerra lo falcerà con un triangolo rosa.

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Stupisce. Stupisce scoprire che un romanzo così denso e così intenso, così difficile e così scomodo, così consapevole e così dettagliatamente documentato, e anche – perché no – così voluminoso e così curato, sia stato scritto da una ragazza così giovane. Valentina Brunettin, udinese, classe 1980, studentessa in lingue, ha già vinto il Campiello Giovani per un racconto, quattro anni fa. E c’è da giurare che anche quest’opera le darà delle soddisfazioni.

Stile ricercato, che a taluni potrebbe anche risultare fastidioso, ma efficace, carico di poesia e denso di immagini, metafore, metonimie, sinestesie, per una narrazione tutta sensazioni, tutta dall’interno, in prima persona, fortemente psicologica e drammaticamente umana: Fuoco su Babilonia è il racconto di una storia difficile, difficilissima, da deglutire a poco a poco, con fatica, ma impossibile da risputare fuori, una volta assaggiata.

Spiegel (Specchio, in tedesco) è il nome d’arte del protagonista: figlio di una prostituta morta di meningite, vive gli anni più belli della sua adolescenza (e, probabilmente, della sua intera vita) a vendersi con allegria in un bordello omosessuale nella Germania nazista. E nazista lo è lui stesso, fino al midollo: crede nell’ideologia della razza, pur essendo la sua fisionomia assolutamente l’opposto dell’arianesimo, detesta e disprezza gli ebrei, e adora il Führer come un dio.

Poi, arriva la guerra, arrivano i lager, e arrivano i triangoli rosa. E il bordello non sarà risparmiato. Ecco come Spiegel finisce in un campo di concentramento. E da qui parte una storia di fame, di dolore e di freddo, ma anche di sesso e di amore (o amori), di svelamento di ipocrisie, là dove ad avere più fortuna tra i deportati gay sono quelli che si concedono con più abilità o con più passione agli ufficiali, rigidi e frigidi custodi della virile morale nazista che immediatamente si sciolgono al calore delle carezze dei – pubblicamente – tanto disprezzati "frocetti".

Un libro dove, tra le righe, si avvertono sfumature orwelliane, nel rapporto ambiguo tra carcerati e carcerieri, nelle torture che rubano la dignità (quella dignità che Spiegel impara, guarda caso, nel bordello: "[Sysiphus, il tenutario del postribolo] voleva che noi tutti conservassimo la nostra dignità. La sua bocca traboccava di parole sull’onore, sulla personalità. Anche se poco convinto, diceva che noi eravamo ariani e, anche se ci prestavamo a un simile mestiere, avevamo il diritto nonché il dovere di rispettare e farci rispettare"), negli specchi che restituiscono ombre di un sé passato, nella proiezione divina dell’immagine del dittatore, nel sesso come atto di ribellione, in frasi alla 1984 come "Nel lager, noi tutti eravamo morti dal primo giorno"… Solo che in questo caso la storia continua, la dittatura finisce e la pace trionfa.

Ma il bene no. Ed è forse proprio questo il pregio maggiore del romanzo: l’assoluta assenza di una visione manichea. Non esistono il Bene e il Male, o un confine netto tra l’uno e l’altro, o meglio, forse c’è solo un grande Male, che è il nazismo con la sua guerra e i suoi campi di concentramento, e tanti mali minori che ne discendono; e poi non ci sono buoni e cattivi, o meglio, tutti sono un po’ buoni e un po’ cattivi, un po’ egoisti e un po’ generosi, i carnefici sono anche vittime e le vittime sono, talvolta, anche un po’ carnefici; e ancora, ci sono rivincite ma non vittorie, ci sono morti ma anche rinascite. Soprattutto, non c’è una morale (coerentemente con le idee del narratore: "Detestavo la moralità e l’immoralità. Entrambe sono in effetti inutili: entrambe insegnano ciò che è sbagliato, non ciò che è giusto"), non ci sono risposte definitive. Ma ci sono domande, tante domande, da far riflettere fino a sognarselo di notte, il fuoco su Babilonia.

Valentina Brunettin, Fuoco su Babilonia
Marsilio, 358 pp., 16,50 €

di Selene Verri

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