Caro Aurelio, un passo indietro? La politica deve farne cento avanti

Alla 'provocazione' di ieri di Aurelio Mancuso risponde Andrea, "co-papà" di tre figli

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Lo sapevamo che l’articolo-riflessione di Aurelio Mancuso avrebbe fatto discutere: la sua “provocazione ” di ieri, fatta da una persona nota, colta e capace di argomentare, è stata un sasso nello stagno, secondo alcuni, di un dibattito che all’interno della comunità LGBT italiana va spesso avanti per tesi precostituite, senza mai fermarsi un attimo a riflettere. E così, accanto alle (sinceramente) poche difese di Aurelio prese da qualche esponente della comunità, la discussione che si è svolta prevalentemente sui social network ha visto gran parte delle persone criticare le sue posizioni in modo netto ed inequivocabile. Gay.it, in questo sforzo di dare voce a tutti ma anche di sviluppare il dibattito interno alla comunità, ospita oggi volentieri l’intervento di Andrea Rubera, esponente romano di Famiglie Arcobaleno, padre, insieme, al suo compagno Dario, di tre bellissimi bambini.

Era il 1990. 4 anni prima era iniziata la storia con Dario, ora mio marito. Annaspavamo alla ricerca di cosa significasse “essere una coppia gay”. Modelli non ne avevamo. Di omosessualità in TV, sui giornali, si parlava solo come macchietta, malattia (l’AIDS stava imperversando anche in Italia), ricerca disperata di sesso rubato e nascosto. Noi ci amavamo e provavamo a mettere insieme tante cose, non sempre con successo: la paura, il forte sentimento, la nostra fede, il costruire una vita insieme senza sapere esattamente la direzione. Eravamo comunque nascosti a tutti, a tutto, quasi anche a noi stessi.

Ero giovane, scrivevo poesie e frequentavo alcuni poeti del giro romano, tra cui Amelia Rosselli e Dario Bellezza.

Caro Aurelio, un passo indietro? La politica deve farne cento avanti - dario bellezza - Gay.it

Proprio con Dario Bellezza passeggiavo un pomeriggio al mercato di via dei Pettinari. Gli raccontai di me, di Dario, del desiderio di vivere una vita insieme, di pensarci sposati in prospettiva: famiglia. Lui mi guardò con occhi stralunati, e mi disse che l’idea era folle, che l’istituzione del matrimonio, della famiglia, della stabilità sentimentale andavano contro il processo di liberazione della sessualità, dei corpi, che stavo mandando a quel paese anni di lotta. Lo capivo, era sincero. Ma semplicemente quello che mi raccontava non mi apparteneva, non mi ci ritrovavo.

Sono passati tanti anni, 25. Io e Dario ci siamo sposati, nel 2009, in Canada, a Toronto. In quel paese lontano e freddo, eppure così ospitale, abbiamo visto con i nostri occhi coppie di mamme e di papà portare a spasso i loro bimbi, abbracciarli, la loro quotidianità, banale quanto esaltante per noi. Per noi, nati e cresciuti in Italia, con un pesante fardello di omofobia interiorizzata da smaltire, la genitorialità era un tabù, innominabile, impossibile anche solo immaginarne il desiderio. Eppure quelle copertine colorate, quei passeggini, quegli abbracci e baci sembravano del tutto famigliari, a noi, come al resto delle persone canadesi che cordialmente si fermavano a complimentarsi con quei genitori, naturalmente, come se fossero sempre esistiti.

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Abbiamo allora accettato di iniziare a raccontare a noi stessi quello che fino a poco prima ci negavano e piano piano la Verità è affiorata con prepotenza, come un’eruzione di un vulcano sottomarino. Piano piano rinascevamo di nuovo a noi stessi, genitori. Dopo qualche anno siamo diventati cinque: sempre io e Dario, ma con Artemisia prima e poi con Cloe e Jacopo. Felici, completati: famiglia, come nell’anelito che condividevo venticinque anni prima con Dario Bellezza.

I nostri figli sono nati in Canada, desiderati voluti, sognati. Ti racconto una cosa molto privata: nel 2009, nel nostro viaggio di nozze, siamo capitati a Jerome, una piccola cittadina dell’Arizona. Un negozietto vendeva anticaglie, oggetti degli anni ’60, interessantissime per noi, cresciuti con Happy days. Un vestitino rosa vezzoso, di una bambina di tanti anni fa, faceva capolino da un armadio. L’ho preso in mano e ho sognato Artemisia: era lei, credimi, non sono pazzo. Con quei capelli giallo oro, con quegli occhi stregati. In quel momento ho saputo che Artemisia sarebbe venuta tra noi.

Ed è arrivata 3 anni dopo, grazie a Carrie Lynn, la donna che ci ha aiutato a metterla al mondo, prendendosene cura per 9 mesi e a cui saremo eternamente grati e legati a doppio filo. Carrie ha aiutato a venire al mondo anche Jacopo e Cloe. Ce lo ha chiesto lei che, nata in Canada, paese fatto di famiglie giovani e numerose, non poteva sopportare l’idea che Artemisia rimanesse figlia unica. Nei due giorni più importanti della nostra vita, eravamo quattro in sala parto: io, Dario, Carrie-Lynn e Tara, sua moglie e con lei madre di due figli, Chelsea e Logan. Sì, Carrie è una donna lesbica che desiderava aiutare una coppia gay nel loro desiderio di genitorialità. Ed ha scelto noi. Sì, perché la legge canadese, oltre a prevedere che la gestazione per altri sia solo altruistica, affrontata da donne già madri e che non devono avere legame genetico con il bambino che ospitano in grembo, prevede anche che sia la donna a scegliere la coppia da aiutare e non viceversa. E oggi Carrie, con cui ci sentiamo quotidianamente, ha tatuato sul ventre, su quell’amabile ventre che ha ospitato i nostri figli per nove mesi, “Sempre famiglia”, in italiano, sì. Per significare, secondo lei, che quel rapporto non finirà mai, che saremo sempre legati.

In Canada eravamo sposati, entrambi padri dei nostri figli, tra loro fratelli. Sono bastate 9 ore di volo a fare diventare noi due papà single, che casualmente condividono lo stesso appartamento, e i nostri figli degli estranei tra loro e con l’altro papà. Un disastro, insomma. Sarebbe un vero disastro se non potessimo contare sul buon senso delle persone, e gli Italiani che, se fanno il salto dal piano ideologico a quello umano, riescono sempre e comunque ad essere accoglienti, amorevoli. La nostra vita scorre normale: dal pediatra, a scuola, in spiaggia, in palestra, a volte anche nei contesti cattolici. I bambini sono bambini, l’amore è amore. La famiglia è il luogo dove si ama e si viene amati. Questo mi ripetono i genitori dei compagni di scuola.

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Ma il disastro è reale nella misura in cui i nostri figli sono cittadini di serie B, cittadini mutilati, invalidi civili. A loro non è concesso di poter avere riconosciuti i diritti che gli derivano dall’avere due genitori. Per lo Stato uno di noi due è un estraneo per il figlio che ha tanto desiderato, voluto, sognato. Dario (che ha tagliato il cordone ombelicale di Artemisia) per andare a prenderla a scuola ha bisogno della mia delega, come la baby sitter. Se io venissi meno, che garanzia avrebbe Dario di poter continuare a essere il papà di Artemisia? Se io impazzissi e non volessi più vedere Dario, e non volessi neanche che lui vedesse più Artemisia, che diritto avrebbe lei di poter seguitare a frequentare il suo “Papu”? E se Dario decidere di sparire, che diritto avrebbe Artemisia di continuare a ricevere la sua cura sia materiale sia affettiva? Una parola sola: nessun diritto. Cittadini di serie B. Bambini fantasma.

Oggi leggo che inviti noi papà gay a fare un passo indietro, a non mostrarci più, a non chiedere più esplicitamente nulla. Lo chiedi per la causa della legge sulle unioni civili, per farla passare. Ma nella tua richiesta inserisci anche un viscido e denso giudizio sulla gestazione per altri, che probabilmente non conosci, o forse conosci solo nella sua dimensione deprecabile di “utero in affitto”, pratica che ogni essere umano, io per primo, dovrebbe condannare duramente e che prevede sevizia, sfruttamento, perdita di libertà. Ed invece si tratta di storie a lieto fine… sì quel lieto fine dove ci si abbraccia tutti, dove ci si scambiano i regali a Natale, dove si fanno le foto stupide insieme, dove non ci sono sfruttatori e sfruttate, ma solo bei ricordi e tanti anni davanti insieme. Storie di gestazione per altri che, per inciso, riguardano 95 volte su 100 coppie eterosessuali e che non c’entrano per nulla con il disegno di legge “Cirinnà”, che non prevede in alcun modo la gestazione per altri che rimarrà proibita in Italia.

Sai che in genere ti stimo, ma questa tua esortazione alla “scomparsa” la trovo veramente inopportuna e priva di senso e di solido aggancio alla realtà. E la trovo anche pericolosa perché casca nel tranello di chi vuole agganciare, con malizia calcolata, la legge sulle unioni civili all’”utero in affitto”, con l’obiettivo di creare lo spauracchio per impedire che alcuna legge venga alla luce. Che passo indietro dovremmo fare di fronte alla Verità e Bellezza delle nostre famiglie? Cosa dovremmo fare se non raccontare l’assurda e incivile situazione condizione in cui ci troviamo noi e, soprattutto, in cui si trovano i nostri figli? Vuoi forse farci capire, come fanno alcuni “gay di una volta”, che un gay, come dice Aldo Busi, non può essere, ad esempio, né genitore né cattolico, come sono ad esempio io? O possiamo sperare nel diritto a progettare la nostra vita a trecentosessanta gradi, senza alcun limite che non sia il rispetto per la dignità dell’altro?

Stiamo attenti ché, continuando su questa strada, potrà arrivare sempre qualcun altro che porrà sempre più in alto l’asticella di ciò che non può essere desiderato, di ciò che non può essere nominato. l temi reali su cui dovremmo serenamente, civilmente, e evitando l’odioso scontro ideologico sono: i figli delle coppie gay crescono bene o meno? (la scienza ci dice sì); due gay possono essere bravi genitori o meno? (la scienza ci dice di nuovo sì); la gestazione per altri, così come avviene in USA e Canada, assicura o meno la libertà e l’altruismo della scelta della donna? (le leggi americane e canadesi ci dicono sì); si può e si deve arginare lo sfruttamento delle donne dei paesi del terzo mondo per la pratica dell’utero in affitto? (credo di poter parlare a nome di tutte la famiglie arcobaleno italiane dicendo che tutti noi grideremmo in coro “SI, LO VOGLIAMO CON TUTTI NOI STESSI!”).

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A tutte queste domande si dovrebbe rispondere se si vuole fare politica e scegliere adeguatamente le soluzioni migliori per, anzitutto, salvaguardare il benessere e il futuro di bambini che già oggi esistono e che all’estero hanno già riconosciuti due genitori dello stesso sesso. Per noi non è possibile fare alcun passo indietro. La nostra famiglia, i nostri bambini hanno bisogno urgente di tutela. Per noi, che siamo genitori, nulla può prescindere da questo. Le unioni civili, senza riconoscimento di un futuro dignitoso per i nostri figli, non hanno ragion d’essere per noi perché ci ritroveremmo monchi nella nostra più profonda componente identitaria.

Per la politica questi bambini non esistono. Sono, come ho detto prima, bambini fantasma, schiacciati tra un “affido rafforzato”, la “stepchild adoption”, i fantasmi evocati dello sfruttamento del corpo della donna, le farneticazioni della genitorialità vista solo come emanazione genetica (arrivando a negare pure la bellezza del legame genitoriale tra adottato e adottante) e, soprattutto, il nulla cosmico che si cela dietro la protezione sociale che dovrebbe derivare dai diritti che spettano loro e di cui non godono. Proprio da te doveva arrivare questo calcio sonoro nel sedere della mia famiglia a cui proponi l’”invisibilità” per il bene comune?

Oscar Wilde diceva oltre 100 anni fa: “Le cose vere della vita non si insegnano né si studiano: si incontrano”. Ecco, se vuoi fare politica dentro il partito di cui fai parte, ricordalo a tutti. Non si può rimanere imprigionati nel principio ideologico astratto. Bisogna scendere per strada, incontrare le persone, cercare di carpire e godere la Bellezza e la Verità che sta in ognuno, nessuno escluso.

Non siamo noi a dover fare un passo indietro. E’ la politica a dover fare centro passi in avanti.

Andrea Rubera

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