10 cose del Togay che nessuno vi ha raccontato

Si conclude con successo il 29esimo festival lgbt. Ecco i punti forti, minuto per minuto.

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5 min. di lettura

1) Cinema Massimo, ieri sera.

Signorili, eleganti e in forma. Gli sposi Ernst Ostertag e Robi Rapp solcano il buio nel varco centrale della Sala Uno e giungono sul palco tra gli applausi scroscianti: “Prima di tutto vorremmo ringraziare di cuore tutti i presenti che ci hanno accolto così calorosamente e fatto sentire subito a casa. Grazie a tutti quelli che hanno fondato il Circolo: persone che hanno messo tutta la loro esistenza, alcuni hanno perso il lavoro e altri persino la vita”. Sono loro i vincitori del festival, le anime (e i corpi) pulsanti di “Der Kreis” di Stefan Haupt, solido docu-drama più vero del vero (e quindi la massima finzione possibile, essendo cinema). Il Circolo è il club omonimo nonché la rivista ‘beefcake’ con muscoli guizzanti nati per mano di un rifugiato tedesco fuggito dal regime nazista nel dopoguerra, a rischio di chiusura per una serie di omicidi con ricatti annessi. Loro stanno insieme da quasi sessant’anni, il ‘nostro’ direttore del festival Giovanni Minerba era un bambino: lunga vita a tutti (e pure agli alter ego cinematografici Matthias Hungerbuehker e Sven Schelker)!

2) Sempre Cinema Massimo, un po’ prima.

La brava Levante, detta ‘Levi’, al secolo Claudia Lagona, cantante torinese scoperta in un bar di Piazza Vittorio, voce ferma e chitarra magicamente sintonizzata sui battiti delle mani e del cuore degli spettatori, intona la già cult ‘Alfonso’ e svela tutti i magoni e le angosce della Generazione della Paura: “Che vita di me…rda!”. “Ho 17 euro sul conto” conferma agli organizzatori e al pubblico, giusto per fugare i dubbi. “Tanti auguri ma… non ti conosco”, aggiunge nel testo della bella canzone, simpatica e poppeggiante.
Già amatissima dalle ‘pennoire’, ossia le parrucchiere torinesi e non (canta sicura: “Mai ho tagliato i capelli da sola”), è un vero talento musicale ed è riuscita a pagarsi tutte le multe arretrate grazie al suo cd ‘Manuale Distruzione’. Da accaparrarsi prima possibile.

3) Sabato 5 maggio, pomeriggio, e domenica 6, sera.

Sono in the mood of dancing. Vado a vedere il tedesco “Ich fuehl mich Disco” di Alex Ranisch. È il film che ho amato di più, quello che ‘non vince facile’ ma il più sincero, onesto, e creativamente originale (ha rischiato grosso: mamma che cade in coma irreversibile mentre passa l’aspirapolvere). Grazie a Dio vira in fiaba surreale. Magia. Racconto di formazione un po’ delirante, ruvido e più umano dell’umano, sull’amicizia e amore fra ragazzi disadattati, ha vinto un bellissimo Queer Award. La sera seguente ci scateniamo alla festa più bella nel rutilante Queever alla Gare, fra matrioske cartonate e Putin col rossetto, ragazze e ragazzi
multicolor in pista galvanizzati dai dj Brian e Resident Virus pronti ad animarli.

4) Le famiglie si ritrovano in Sala Tre.

Eccola, la famiglia più bella (e basta aggettivi, è una famiglia tout court). È quella formata da Marco Simon Puccioni, il suo fidanzato e due splendidi bimbetti timidi timidi che non vogliono dire come si chiamano. ‘Prima di tutto’ è un sentito selfie-doc che analizza dall’interno, come un palpitante diario intimo, la loro esperienza di papà con due donne che hanno procreato altrettanti figli come ‘mamma pancia’ e ‘mamma uovo’. È stato realizzato in collaborazione con Doc Tre e le Famiglie Arcobaleno. Toccante e necessario.

5) Sempre sabato, prima che la Juve vincesse matematicamente il Campionato.

Eccoci nella fantasmagorica Cuba, sul lungomare de L’Avana, il Malecon. Rainier batte per mantenere moglie, figlia e pure la madre che lo sprona a lavorare il più possibile. L’amico e collega Yosvani in realtà lo ama ma all’apparire del bel Juan la quotidianità è sconvolta: lo straniero arriva in pace? Il sogno di felicità non ha frontiere e la bellezza esotica di quella ‘fattoria belvedere’ che è Cuba, per dirla alla Hemingway, lascia senza fiato. Applausi senza fine alla vittoria della menzione speciale della giuria.

6) Le ragazze si vedono bene (tutti i giorni)

Discriminate, sottovalutate, bellissime. Eccolo, l’esercito di ‘lelle’ (annoveriamo pure l’irresistibile Alessandro Fullin che ieri sera era
‘vestito come una lesbica di campagna’: ipse dixit). Hanno invaso per una settimana ‘Da Sodoma a Lesbo’ più che Hollywood, istituzionalizzato, però, come TGLFF. Si beccano palle in testa e diventano prostitute (“Concussion”), fanno le senatrici agguerrite, le sceriffe antiomofobia, le giudici trans (“Breaking Through”), le femministe over 65 (Therese Clerc in “Rebel Menopause”), le zingare MtoF (“Naomi Campbel”). Non fanno rumore, sono poco appariscenti, guardano l’altra faccia di Marte, quella operosa che bada al sodo. Chapeau.

7) Non è la Rai: è Ambra.

“60 anni di RaiTv, tra spettacolo e informazione” di Enrico Salvatori non è un doc: è la proposta archivistica integrale di infiniti spezzoni di una tv di Stato restia a parlare di omosessualità, e quando lo fa, lo fa male. Un talk del 2003 tratto da una pintata di ‘Rai54’ con un’intervista di Pippo Baudo a Eva Robin’s (la cosa migliore); l’affascinante caso di Aldo Braibanti morto un mese e un giorno fa, il 6 aprile, organizzatore di misteriosi riti ‘circolari’ orfici, condannato per plagio di due giovani piacentini suoi allievi; l’innesto incongruo dell’intero ‘Toupet de Luxe’, infinita carrellata di comicità en travesti, da Panelli a Poli, dal 1954 al 1977. Meglio la gaia freschezza dorata dell’Angiolini. O il monoscopio.

8) A qualcuno piace sempre corto.

Membri spillanti, porno frenetico con montaggio da videoclip, immagini rubate di nascosto neo cessi dove bancari ed executives svuotano la testa e altri contenitori come fanno con le ricevute inutili in pause sempre più brevi. Antonio Da Silva, regista portoghese di stanza a Londra di cui avevamo visto l’integrale al festival nizzardo ‘In&Out’, è da tenere d’occhio e il suo energico “Bankers” è una delle curiose cinevarianti della sua ossessione primaria alla Nymphomaniac: reclutatori online (“Mates”), rossi e pelosi (“Gingers”), paparini dotati (“Daddies”), un piccolo, grande amore (il commovente “Julian”). Poi ci sono le famiglie
con bimbette sagaci e due papà (il bellissimo “Rue des roses” di Patrick Fabre), il gagno di sei anni che svela per un equivoco l’omosessualità di entrambi i genitori (il satirico “dik” diretto da Christopher Stollery) e molti altri. Corti, spesso poveri, ma belli.

9) Il Cerchio non si chiude

Alcuni film non chiudono bene, scricchiolano, deludono. “Tom à la ferme” di Xavier Dolan ha una messa in scena sofisticata ma una tensione narrativa pari a zero, imperdonabile per un thriller dalle pretese hitchcockiane. “Test” vorrebbe parlare dell’epidemia Aids sul nascere ma in realtà è un’ode al potere salvifico della danza (troppi numeri di balletto, troppi!) e all’egoismo sfrenato: l’importante è essere sieronegativi, chi se ne importa dei conoscenti positivi. “Floating Skyscrapers” è urticante come carta vetrata sullo scroto, grigio come l’asfalto, eppure si dimentica subito. “Bananot” (“Cupcakes”) è un divertissement innocuo sull’Eurovision di cui non coglie l’anima camp né l’international kitsch che richiama stuoli di gay anche dall’Italia: il regista di “Yossi & Jagger”, l’altrove bravo Eytan Fox, è irriconoscibile.

10) E adesso facciamo trenta… E lode!

Il festival ce l’ha fatta e la sua partita contro il tempo l’ha già vinta, riempiendo sale e cuori all’inverosimile. Un grazie sentito al direttore Giovanni Minerba e agli organizzatori, in attesa dell’Altro Festival, il trentesimo, quello dell’anno prossimo. Con i suoi meritati festeggiamenti. Perché, come avrebbe detto Ottavio Mai, negli occhi resta il cinema, ma nelle mani degli innamorati che ballano ne “Il Circolo” e fuori dal Massimo c’è Amore Carne, come ci ha insegnato il grande Pippo Delbono. O più semplicemente l’amore.

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