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COM’È AMBIGUO QUESTO CLOUSEAU

Da venerdì nelle sale la nuova versione di “La Pantera Rosa” con uno Steve Martin tanto dandy da sembrare effeminato. Un sequel “modernizzato” che fa tornare la voglia di rivedere tutti gli altri.

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Un giornalista chiede a Steve Martin se pensa di accettare l’invito al Festival di Sanremo e lui candidamente risponde: «Sì, potrei accettare di andare al Festival del cinema di Sanremo»; l’interprete gli chiarisce che è un Festival della canzone e lui, tra il faceto e l’attonito: «E perché dovrei andare? Per suonare il banjo?».

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L’equivoco ironico mostra uno Steve Martin brillante, forse più nella realtà che nella finzione scenica. E la sua presenza, insieme con Jean Reno, alla conferenza stampa del 21 febbraio a Roma per promuovere l’ultimo film sulla Pantera Rosa, è stata spassosa. Martin è un uomo distinto, vestito di tutto punto, con completo di velluto nero. Elegante. Si potrebbe definirlo un dandy se non fosse americano.
Nell’ultimo sequel, di cui è protagonista nonché autore insieme con il regista Shawn Levy, ha pure un’ambiguità fisica costruita con grande abilità ed evidenziata a partire dal suo guardaroba, disegnato dal bravo Joseph G. Aulisi. Il costumista ha ripreso la moda degli anni sessanta ma rivisitandola in chiave umoristica, con giacche più avvitate e strette del dovuto, pantaloni larghi e ridotti che lasciano intravedere i calzini a righe colorate e le sproporzionate scarpe a punta. A ben vedere è anche un rifacimento…
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A ben vedere è anche un rifacimento del costume di Charlot che di femmineo ha molto, e a confermare il modello del cinema muto sono anche i corti baffetti dell’ispettore che piovono all’ingiù. Non solo: anche le movenze, un certo languore nello sguardo, una mano che penzola di tanto in tanto. Insomma, un ispettore Clouseau, quello di Martin, che riflette l’androginia del personaggio animato del cartoon, diventato poi un inevitabile simbolo camp, per via del colore, certo, ma anche per la mancata appartenenza a un genere sessuale preciso, già preannunciato dal nome in inglese: panther infatti non ha genere. Senza contare che sulla copertina del vinile della colonna sonora di Hanry Mancini del 1963, il felino, con i lunghi baffi, il bocchino stilizzato e l’espressione altezzosa, è incline a una certa divistica femminilità.

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La Pantera rosa è il nome dato alla pietra preziosa che ha l’immagine di un felino disegnata al suo interno; e l’ispettore Clouseau entra in scena per scoprire il ladro del diamante, per sua natura fisica una pietra oltre che di valore anche misteriosa, date le sue mille e angolari facce. Ma solo con il secondo film, Uno sparo nel buio (1964), il personaggio dell’ispettore, interpretato magistralmente da Peter Sellers, diventa protagonista. Martin stesso afferma: «Mi sono ispirato a Sparo nel buio perché nel primo episodio c’era poco di Clouseau come personaggio. Mentre in questo il personaggio è più rifinito e complesso».
Il soggetto fu ideato da Blake Edwards, conosciutissimo regista americano di commedie, non a caso molto affezionato alla tematica dell’ambiguità sessuale (Victor Victoria, per esempio); mentre i titoli di testa furono creati dal disegnatore Fritz Freleng, che assecondò le indicazioni di Edwards, il quale suggerì proprio il felino come personaggio protagonista. E dai titoli fu tratta tutta la serie animata della pantera, che è enigmaticamente muta ma indossa l’impermeabile: abbandona così la veste da diva della prima versione per qualificarsi come un grazioso gentleman.

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Tuttavia, nei titoli di testa del nuovo sequel è ripresa l’antica androginia del felino, che appare illuminato di spalle da un occhio di bue, con cilindro e bastone, mentre ondeggia i fianchi con certo ammiccamento, un po’ Charlie Chaplin un po’ Marlene Dietrich.
Per questo appare emblematica la scena in cui Clouseau, dovendo partire per l’America, prende lezione di pronuncia inglese da un’insegnante. Martin è seduto con le gambe accavallate e imita i movimenti della bocca dell’insegnante, che hanno del seducente, come se tentasse di specchiarsi nella figura femminile. Oppure quando Martin e Reno (l’assistente Ponton che ha sostituito Cato, il domestico dei precedenti film) improvvisano, travestiti con una tuta kitschissima, una buffa e vagamente omoerotica danza, con la voce di Beyoncé Knowles in sottofondo.

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Il felino delle Destiny’s Child, oltre a sfoggiare le sue doti canore, indossa gonne vaporose, paillettes lucenti e scarpe a pois con fiocco, anche lei un po’ camp un po’ fumettistica. Del resto Beyoncé interpreta la pop star Xania, che non è solo l’amante del celebre allenatore di calcio Yves Gluantche morto assassinato, ma è anche e soprattutto la prevedibile depositaria del diamante.
Martin si è ispirato al film di ben quaranta anni fa: «Credo che ci siano film su cui non si possono fare remakes – spiega – come Casablanca. Ma su film come Il padre della sposa sì, perché il matrimonio e la sua concezione cambiano, e quindi anche i personaggi, che si possono modernizzare. Così, questa Pantera Rosa può raggiungere persone che i film precedenti non avrebbero potuto raggiungere». Può darsi. Se non altro quest’ultimo sequel “modernizzato” fa tornare l’irresistibile voglia e la sana nostalgia di rivedere tutti gli altri.
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di Pietro Levato

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