Forse in un prossimo futuro saremo costretti a rivedere il nostro vocabolario, visto che la parola "gay" inizia ad essere considerata limitante e qualcuno sta già proponendo di affiancarla al termine "androfilo", mentre "omosessuale" è ritenuto troppo generico. Anche se suona strano questi ragionamenti hanno una loro ragion d’essere…
La parola omosessuale era stata inventata nel 1869 da K.M. Kertbeny, per sostituire "sodomita" nei documenti che proponevano di depenalizzare i rapporti fra persone dello stesso sesso. Nel 1886 lo psichiatra R.F. Krafft-Ebing la usò nel suo libro Psychopathia Sexualis e la rese popolare soprattutto in ambito medico, per definire chi era attratto dal proprio sesso. Al di là della valenza patologica, la parola si dimostrava da subito molto generica: se definiva il desiderio poteva applicarsi anche a chi sceglieva di reprimere la sua natura per tutta la vita o a chi non aveva mai consumato rapporti fisici. Per questo si iniziò a preferire la parola "gay". Era già stata usata nel XIII sec. in Francia per indicare gli amanti del proprio sesso, e – per un’infelice associazione di idee – nel corso dei secoli diventò sinonimo di chi aveva pochi scrupoli morali. Questo fece in modo che, nel XIX sec., in Inghilterra indicasse le prostitute e – più avanti – i travestiti che si prostituivano.
Divenne così sinonimo di omosessuale visibile, e si diffuse nelle comunità omosessuali, dalle città inglesi al resto del mondo. Anche questa, però, era una parola che nasceva con dei limiti, dato che definiva un gruppo molto circoscritto di individui, cioè quelli molto visibili come travestiti e effeminati. Tuttavia la parola – anche per il suo uso "politico" – divenne il simbolo della comunità omosessuale nel suo insieme, e proprio per questo iniziò ad essere vincolante, perché non indicava il semplice orientamento, ma un’identità culturale. Essere "gay" voleva dire usare un certo linguaggio, avere certe abitudini, vestirsi in un certo modo, ecc. In parole povere adeguarsi a un sottinteso conformismo, che variava con le mode e coi decenni, ma che dettava legge nei cosiddetti "ambienti gay". Cosa che in effetti succede anche oggi. Però già agli inizi del XX sec. il sessuologo M. Hirschfeld proponeva l’uso di termini alternativi come efebofilo (amante dei ragazzi) o androfilo (amante degli uomini).
Recuperando questa idea negli USA si è costituito recentemente anche un movimento androfilo, che si propone come alternativa culturale al movimento gay e ai suoi codici, che ritiene ormai superati. Uno dei maggiori teorici di questo pensiero e J. Malebranche, che ha recentemente riassunto in un libro il "manifesto androfilo", ribadendo la libertà di essere "gay", ma rifiutando l’idea che questo possa essere l’unico modo di vivere apertamente l’omosessualità. L’autore contesta soprattutto quelle dinamiche che spingono le persone a fare propria l’identità "gay", magari sacrificando la loro vera personalità e le proprie vocazioni maschili, per non sentirsi esclusi dall’unico mondo (quello gay, appunto) in cui possono vivere liberamente la loro omosessualità. Un concetto forse un po’ contorto, ma sul quale sicuramente vale la pena riflettere.
di Valeriano Elfodiluce
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