E’ un libro duro. Alcune pagine colpiscono alla base dello stomaco come un pugno. Ma abbiamo il dovere di leggerlo. Lo scrittore e regista Claudio Camarca, in “Il sorriso del mondo” (Baldini&Castoldi, pp.315, L.28mila) racconta con una prosa tagliente la sua esperienza al seguito di Operation Smile, organizzazione umanitaria di chirurghi e infermieri in missione nei paesi più poveri di tutto il mondo per curare e operare i bambini ustionati, mutilati, affetti da labbro leporino e da altre deformazioni. Ma Camarca non racconta soltanto la speranza riportata fra gente disperata grazie agli interventi chirurgici: racconta quello che c’è dietro alle facce deformate di quei bambini, le terribili condizioni di vita in cui vivono insieme alle loro famiglie, la loro insopportabile povertà sopra la quale prospera l’Occidente ricco. Testimone, Camarca riesce a rendere testimoni anche noi, attraverso una scrittura che non lascia tregua. Come lui, all’inizio ci sentiamo spaesati, impauriti. Poi, attraverso di lui, ci spostiamo dall’Honduras alla Cina attraverso il Sud America, l’Africa, la Palestina e il Sud Est asiatico. Conosciamo le storie di Axel e di Angel bambini a Panama, di Matilde bruciata viva, di Alejandro e Jorge, di Patty pornoragazzina in Thailandia e di Peter bambino perduto tra violenza e Aids in Kenya. Entriamo nei luridi ospedali del Brasile, nelle baracche ai piedi di gigantesche discariche di rifiuti nelle Filippine, dove la gente si nutre di ratti, nelle strade piene di prostitute delle città del Kenya, dove una ragazza su quattro tra i quindici e i diciannove anni è sieropositiva.
Ma sarebbe fare un torto al libro elencare le storie che Camarca ci racconta: è necessario leggerle scritte da lui, dedicare tempo a questo libro. Che scuote le coscienze in modo insopportabile, perché il linguaggio documentaristico, quasi una sceneggiatura, stavolta non è un espediente. Ma uno strumento narrativo essenziale per restituire la realtà cruda. E tra un Paese e l’altro, spintonandoci ad osservare, Camarca fa stridere i paradossi: povertà, indigenza e disperazione sono le realtà di paesi ricchissimi di risorse, ai primi posti nella produzione mondiale di caffè, zucchero, frutta, riso, petrolio, diamanti, sale, oro e argento. E’ il paradosso del Venezuela, del Brasile, dei paesi africani, dove una manciata di ricchi sopravvivono sulla schiena di milioni di poveri perché tutto il sistema economico del ricco nord del mondo si basa sulla fame del sud. E dalle sezioni dedicate ai “numeri del Duemila” impariamo: che il 20% della popolazione mondiale effettua l’86% dei consumi privati totali e il 20% più povero appena l’1,3%, che con gli undici miliardi di dollari che si spendono ogni anno in Europa per i gelati sarebbe possibile fornire acqua e infrastrutture igieniche a tutto il mondo, e per pagare l’istruzione a tutti avanzerebbero i miliardi di dollari che si spendono ogni anno negli Stati Uniti per acquistare cosmetici, impariamo che nel mondo muoiono 40mila bambini al giorno, che la speranza di vita in Sierra Leone è di 37 anni contro gli 80 del Giappone, che nello Zimbabwe un adulto su quattro è sieropositivo o malato, che nel Bangladesh il 66% dei bambini è denutrito. Senza dirlo, Camarca ci butta in faccia questa verità: le banane, il caffè, la carne che mangiamo e buttiamo viene da Paesi dove la maggior parte della popolazione non ha di che nutrirsi. E ci invita a non lasciarsi incantare da facili demagogie: Camarca spiega che azzerare il debito pubblico di molti Paesi significa rendersi complici di quei governi che sperperano i soldi prestati per aumentare il divario fra i ricchi e i poveri del loro Paese. E propone: bisogna dare mandato alla comunità internazionale (Onu, Fmi, Banca Mondiale) di fissare parametri etici, sociali ed economici rispettando i quali un Paese può accedere all’azzeramento del debito. Da far leggere ai governi occidentali e alle rockstar.
di David Fiesoli
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