La leggenda narra che arrivò a Manhattan nei primi anni ’90 con poco più di 30 dollari, giovane, senza esperienza ma con una grinta feroce. Lo so che la prima persona che vi viene in mente leggendo questo incipit è la ben nota regina del pop nonché ladra di bambini africani, Luis Veronica "non-so-cantare-ma-stica-tanto-i-gay-mi-comprano-anche-se-incido-un-colpo-di-tosse" Madonna, ma invece no!
Ero io che, poco più che ventenne sbarcavo a NY senza avere più un dollaro in tasca dopo aver dilapidato una fortuna il mese precedente a Miami e che, se non fosse stato per la benevolenza di uno sconosciuto che mi ospitò per una settimana, avrei fatto la fine della baby prostituta di Taxi Driver. Quelli erano gli anni del mio attivismo politico, quelli in cui pensavo che l’essere omosessuale ci ponesse in una condizione di responsabilità e di solidarietà reciproca, ben molto tempo prima che, amaramente, mi rendessi conto quanto, almeno in Italia, la coscienza di gruppo e il sentimento d’orgoglio fossero condizioni che la maggior parte degli omoitalici non sentivano affatto.
Fu quindi con una certa emozione che una sera mi diressi al Village portando i miei omaggi al santuario laico del movimento gay, il T con 0 della lunga marcia dei diritti, il locale dove, la notte del 28 giugno 1969 ebbero inizio le rivolte degli omosessuali newyorkesi che avrebbero innescato una reazione a catena in tutto il paese e poi nel resto del mondo: lo Stonewall Inn.
Conservo ancora una foto, di quelle che si facevano ancora con la macchinetta a pellicola. Ci sono io con una salopette a righe, una canottiera verde, una fratta di capelli in testa e un’espressione compiaciuta davanti alla vetrata del locale dove un neon rosso lampeggia gridando ad intermittenza il nome del bar.
L’interno era piuttosto lugubre e cadente. C’era un biliardo dove un paio di ragazzi tiravano con le stecche. Il soffitto aveva fili a vista tenuti su da del nastro isolante, il barista sembrava piuttosto inconsapevole dell’onore di poter lavorare in un luogo così carico di storia e guardava annoiato una larva poco più che ventenne che si dimenava mezzo nudo su una pedana al centro del locale. Ci sono luoghi il cui mito è incommensurabilmente più grande della loro misera realtà ma, nonostante questo, l’emozione fu comunque grande.
Questi sono i giorni dell’anniversario del Gay Pride e ogni volta che si pone enfasi sulla miliarità di ricorrenze così importanti, si corre sempre il rischio di sprigionare un terribile tanfo di naftalina. Ma forse è ancora necessario farlo. Anche in questi anni e soprattutto in Italia dove, dal 1969 a oggi, la comunità gay non mi sembra sia progredita né in termini di diritto né tanto meno come affermazione e rivendicazione della propria identità.
Convinto come sono che buona parte delle giovani leve gay (al pari dei loro coetanei etero) abbiano un totale disinteresse per l’attivismo politico e una preoccupante ignoranza sui fatti storici che riguardano la propria comunità, ritengo che valga la pena ricordare cosa successe in quell’afosa notte d’estate, in un bar con una porta con una piccola feritoia attraverso la quale il buttafuori scrutava chiedendo ai clienti una parola d’ordine in perfetto stile carbonaro, in una città che noi abbiamo immaginato sempre essere faro di tolleranza e democrazia ma che all’epoca tutto era tranne che questo e che forse non lo sarebbe stato mai se gli omosessuali non avessero reagito con la rabbia dell’esasperazione e se l’ironica epica del momento non si fosse incarnata in una Giovanna D’Arco di nome Sylvia Rivera, che brandendo un tacco (che sia vero o meno è un immagine che meriterebbe lo stesso onore attribuito da Delacroix alla rivoluzionaria de La libertà guida il popolo) diede il via alla rivolta contro l’ennesima e ingiustificata retata dei poliziotti a danno degli omosessuali.
Ecco, nonostante lambisca pericolosamente il ridicolo ostinandomi a ballare in discoteca canzoni imbarazzanti cantate da starlette ancora più indecenti, ho una discreta età e sento la responsabilità di quelli che come me hanno cercato di fare qualcosa per questa comunità e mi riterrei soddisfatto se nonostante la facezia del mio scritto, anche soltanto una persona che fino a ora era all’oscuro dei fatti del ’69, avesse la curiosità di informarsi e quindi di scoprire o riscoprire l’orgoglio di essere persone fiere di essere gay.
di Insy Loan ad alcuni meglio noto come Alessandro Michetti
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