Il viaggio. Anche qui, un’altra volta. Per l’amor di dio, è vero. Anche se a questo punto ci si comincia a chiedere quanto questi maxi-temi che tanto buoni furono per la tesina di maturità servano a capire il corso della moda e quanto invece da stampella a reviewer fiaccati dal succedersi sfrenato degli show e delle feste e dei pezzi che devono uscire sempre prima di tutti gli altri per conquistare la vetta a colpi di SEO.
Perché in questa SS17 di Gucci più che del viaggio sembra si parli della sua completa negazione. E sebbene sia difficile trovare un ombrello sotto cui possano stare queste 70 uscite uomo e donna (a cui si aggiungono le quasi 100 della resort di inizio giugno) l’unica interpretazione possibile è l’esotismo casalingo. Analizzato fino in fondo il discorso genderless, primo e monumentale impatto dopo il cambio al timone di Gucci, e diventato ora impalcatura su cui strutturare nuove narrazioni, quel che qui si fa sexy è un individualismo (misantropia?) psichiatrico.
Ci sono i fuochi d’artificio, le sete e gli intarsi, i colori e le rouches, le stampe amarcord di tovaglie cerate su tavoli di case-vacanze rivierasche. Un sincretismo caotico che centrifuga estetiche lontanissime eppure a modo loro pop, perché sempre rimasticate dal postmoderno, e quindi a noi familiari.
Il travestitismo è il focus di questo lavoro. Ci si traveste per diventare altro, per viaggiare con la fantasia, come bambini ricchi e annoiati, senza abbandonare mai veramente il salotto di casa. Il set conferma questa sensazione, con una carta da parati continua monocolore, perfetta per le foto dei social network. Il soundtrack è un mix di ambient tribaleggiante e violini. Le due anime anche qui, esotismo e borghesia.
Tutto diventa allora una passeggiata sul baratro della farsa.
Ci si scambiano gli abiti, si indossano quelli della mamma e del papà (ma anche del nonno e della nonna), io i tuoi, tu i miei, non mi sono mai messo una gonna, cosa si prova a indossare i collant?, rubiamo il pigiama di seta dello zio dal cassetto (e infatti esce in sfilata con le pieghe del ferro da stiro ben in evidenza): si ride e ci si inebria, di quella libertà limitata e quindi sicura, che però è anche torbida ed eccitante. La sessualità è perversa come solo i bambini sanno inconsapevolmente esserlo. Piccoli serial killer in fieri, e non sembra un azzardo se si ripensa a quella reference musicale al Silenzio degli innocenti della scorsa stagione.
C’è molto più dramma di quanto non sembri. Amore e morte forse, a voler alzare il tiro.
Il tutto sotto una sinfonia di così tanti pezzettini diversi che solo Alessandro Michele (designer di Gucci ndr) sembra essere in grado di dirigere, di questi tempi. C’è Freud, e c’è Antonioni, c’è Antonio Ligabue con i suoi animali naif, le tigri e i serpenti e tutte quelle bestie di paesi lontani che per anni ha dipinto dentro e fuori dai manicomi, nella bassa padana, senza averle mai viste per davvero, creando un mondo nuovo, un’arte nuova, un’estetica fatta solo di racconti di altri e mai esperita. C’è tanto, tantissimo dandy, con il lusso teatrale, le cineserie e i morning suit. C’è The Dreamers con quell’universo a tre che reggeva solo finché un sasso non ha rotto un vetro inquinando la perfezione con la forza della rivoluzione. I sandaletti che si vedono nella prima scena di Profondo Rosso e i kimono en travesti dell’amica di Carlo-Gabriele Lavia. Le avventure di Tintin nella Cina occupata dai giapponesi.
E poi c’è la TV, alma mater della generazione X a cui Michele appartiene, che ha tenuto banco nella vita e nei pomeriggi annoiati, che ha creato illusioni e suggestioni, paperino e il punk, in un’ambrosia linguistica pop che come la Coca-Cola più ne bevi e più hai sete.
E la sensazione è che questo raffinatissimo junk-food fashion, che ha conquistato tutti, appassionati e mercati, e ha creato probabilmente il nuovo ideale di uomo, sia dolce quanto pericoloso. Una stratificazione di significati discordanti come raramente se ne vedono. È assenza totale di empatia e coesione. È dissociazione e psicopatologia. Abisso? Sicuramente una delle più spietate e meravigliose analisi del contemporaneo, come forse oggi solo la moda sa fare. Su se stessa. Pagandone il prezzo.
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