“Essere sé stessə è un’azione politica”, l’intervista a David Blank

L'artista si racconta con Gay.it: tra ricordi, intersezionalità, e la musica come veicolo di libertà.

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David Blank
4 min. di lettura

Cosa significa crescere insieme alla propria musica? Ce lo racconta David Blank.

Da quando cantava dentro coro della chiesa di Ancona, nel paesino delle Marche dove ha passato tutta l’infanzia, fino al giorno in cu ha catturato l’attenzione di una certa Laura Pausini, che l’ha portato con lei in giro per il mondo.

Canta davanti centinaia di migliaia di persone, collabora con gli artisti di punta, ma quell’energia non può limitarsi a condividere il palco: nel 2020 arrivano i singoli Standing in Line e Foreplay – in collaborazione con ilromantico e Pnksand, e sotto l’etichetta indipendente FLUIDOSTUDIO – anticipando EXHALE, nuovo capitolo di un’identità che si evolve e trasforma davanti ai nostri occhi.

In un panorama musicale perennemente eteronormato, bianco, e cisgender, David Blank porta un altro sguardo, dove le influenze di generi e culture diverse, vanno di pari passo con una queerness finalmente non accomodante o edulcorata: come in PRAY, inno queer in duetto con Andrea Di Giovanni e vincitore del premio Mission Diversity, e Now That It’s Real, insieme alla rapper Big Mama e Dumar.

 

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Dalle collaborazioni con Calvin Klein al doppiaggio dell’ultimo film Pixar, SOUL – la sua è una natura multiforme che non smette di uscire dalla propria comfort zone, senza rinunciare all’onestà che lo accompagna fin dagli esordi.

Non per caso, oggi è il nuovo artista a essere incluso nel programma Up Next Italia, iniziativa di Apple Music che identifica e valorizza i talenti emergenti in Italia. Proprio il prossimo 13 Settembre, si esibirà alle 21 in Piazza Liberty a Milano, per l’evento “Una serata con i talenti di Up Next Italia“, insieme ad altri artisti Up Next come Mille, Ginevra, e Leon Faun.

Con Gay.it ci ha parlato di questa nuova era e molto altro.

Come ci si sente ad essere il nuovo artista per Up Next Italia?

È un onore. Nelle tante collaborazioni che ho fatto, sono abituato a stare dietro. È bello essere preso in considerazione come solista, perché sono una persona che ha sempre sentito qualcosa da dire, e questo è per me anche un traguardo.

Sei a contatto con la musica fin da piccolo. Qual è il primo ricordo che ti viene in mente?

Mi ricordo come se fosse ieri la mia performance con la scuola materna, dove ho fatto un lypsync su una canzone di Michael Jackson. Quella era davvero la primissima volta che ho fatto una performance, senza cantare. Da cantante il primo ricordo è invece in chiesa, quando mi esibivo nel coro insieme a mio padre.

Sei cresciuto in un paesino in provincia di Ancona, poi ti sei spostato per tanti anni tra Milano, Londra, Parigi, e altre parti del mondo. In quale luogo ti senti più te?

Penso sia Londra. Perché mi ha cresciuto, anche se alla fine sono scappato per vari motivi. È il posto dove quando torno non sento gli occhi addosso, e mi sento più libero sotto ogni punto di vista. Perdo ogni inibizione anche sul piano musicale, e lì la mia penna cambia.

Oggi si parla tanto di intersezionalità. È una parola che ritorna spesso, e a volte sembra utilizzata a sproposito e non ne capiamo più il vero significato. Cosa significa per te intersezionalità e come si riflette nella tua musica?

Penso di rappresentare una parte della intersezionalità, sia dal punto di vista dell’orientamento sessuale che dell’etnia: perché sono queer e nero in un continente dove sono minoranza. Riesco a rifletterlo nella musica sia raccontando la mia storia che inserendo parti delle mie origini musicali e di quello che ascolto: tra l’afrobeat, con cui sono cresciuto attraverso mio papà e i suoi dischi, tra R&B che ascoltava mia sorella più grande, ma anche elementi garage e dubstep che mi porto dal mio periodo in Inghilterra. Tutto queso unendo italiano e inglese, che sono le due lingue che io utilizzo per esprimermi, a volte mettendo un po’ dello yoruba dei miei genitori, che è una delle lingue nigeriane. Mischiare tutto questo mi permette di rappresentarmi nel modo più onesto possibile.

Nel panorama mainstream italiano sembra che gli artisti apertamente queer non esplodono mai. Nonostante i miglioramenti – anche grazie ad artisti come te e tantə altrə –  sembra ancora una ‘nicchia’ nell’industria. Qual è il tuo parere a riguardo?

Secondo me non è successo perché l’Italia non è pronta. C’è tanto lavoro da fare, sia dal punto di vista culturale che politico. Se la politica è lo specchio della società (o almeno dovrebbe), questa cosa si riflette anche nella cultura e nella musica. Alcuni personaggi nel panorama musicale si sentono un po’ frenati ad essere completamente sé stessə, oppure temono di non raggiungere il mainstream e non essere capiti. Potrei comprenderlo, ma se si ha il potere di portare avanti un cambiamento, a volte bisogna anche un po’ spostarsi dalla propria comfort zone. Solo che in Italia non è semplice, e a volte bisogna anche salvaguardare sé stessə. Penso che il lavoro dell’artista è anche portare avanti un messaggio: c’è chi lo porta avanti in modo più leggero, e c’è chi si batte per farlo in modo leggermente più aggressivo, e a dir la verità, anche più onesto. Perché in questo momento essere sé stessə è un’azione politica. Che significhi essere queer o cambiare i pronomi nelle canzoni, si può lottare anche nel mainstream. Ma capisco che faccia un po’ paura.

Sul lato positivo, trovi che gli artisti indipendenti abbiano comunque una maggior libertà espressiva rispetto le imposizioni dell’industria?

Sì, dal punto di vista indipendente assolutamente sì. Ma onestamente si riesce a lottare fino ad un certo punto, soprattutto quando le persone in potere non ti danno né le armi né lo spazio per ampliare il tuo messaggio. Non si tratta di uscire dalla nicchia, ma di ingrandirla e trovare spazio per tuttə. Ci sono sempre persone che impongono un limite, perché hanno paura di rischiare o non far entrare gli stessi soldi di prima. Il mondo musicale riflette anche quello capitalista, e a volte mandare un messaggio onesto è difficile. Poi ci sono persone nel panorama musicale che non sono queer, e vengono accettate perché utilizzano l’elemento queer come se fosse un costume. Ma quando un personaggio è queer sia nelle performance che nella vita, diventa un problema: perché le persone accettano di vederti in quel modo sul palco, ma non per strada.

Quale sarebbe la tua più grande soddisfazione per le persone che ascoltano la tua musica?

Vorrei poter essere per loro un veicolo di libertà. Perché la libertà è essenziale, nella musica come nella vita. Vorrei che le persone riuscissero a capire il mio messaggio, e  attraverso questo, trovare nelle mie parole qualcosa che le rappresenti.

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