San Valentino, “lascia che ci pensi io” è il “ti amo” scritto coi petali di rosa

“Cosa fai a San Valentino?” è una di quelle domande-zavorra che verso fine gennaio moltə di noi, ancora strematə dalle Feste, si beccano tra capo e collo.

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San Valentio Queer
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“Cosa fai a San Valentino?” – un po’ come “Cosa fai a Capodanno?” o “Cosa fai a Ferragosto?” – è una di quelle domande-zavorra che verso fine gennaio moltə di noi, ancora strematə dalle Feste, si beccano tra capo e collo. “Niente” non è una risposta consigliabile. Chi ha il coraggio di ammettere che starà a casa a poltrire, a guardarsi un film, o peggio ancora che non ha unə partner, in un batter d’occhio si tramuterà in un mostro a tre teste, “cinico”, “acido” o “solo”.

A San Valentino bisogna avere unə partner a tutti i costi, ma soprattutto a San Valentino bisogna pensare e amare l’altrə a comando. Devo inondarti di fiori, frasi smielate o cioccolatini a forma di Cupido; devo compiere atti epico-romantici mai fatti prima, tipo regalarti una stella col tuo nome; devo portarti al sushi più instagrammabile del momento e postare un selfie di noi due, per incasellarmi – il Metaverso mi è testimone – nello status di “coppia felice” che va a cena fuori la sera del 14 febbraio. A San Valentino, insomma, devo ricordarmi che decenni fa, l’anno scorso, l’altro ieri, ti ho sceltə.

La frenesia delle nostre vite quotidiane e lavorative, piene di grattacapi e preoccupazioni, spesso ci distrae dalle cose e dalle persone belle che abbiamo scelto e che, col passare del tempo, tendiamo a dare per scontate. L’idea di dedicare una giornata qualsiasi allə innamoratə non è malvagia, perché in qualche modo ci permette di coccolare quel “noi” che fa sempre bene rinvigorire. Ma pensare l’altrə su ordinazione, in una data fissata per vendere, ha ancora senso? Sottostare al marketing sanvalentinese – figlio di un capitalismo che, ricordiamolo, vuole le coppie emotivamente e fisicamente distanti quaranta ore settimanali (se va bene) e unite soltanto nella carne per procreare e garantire la continuità della forza lavoro – è sul serio una dimostrazione d’amore?

San Valentino, "lascia che ci pensi io" è il "ti amo" scritto coi petali di rosa - ROSE 1 - Gay.it LE ROSE, UNO DEI SIMBOLI PIU’ ICONICI DI SAN VALENTINO[/caption]

Sin dall’infanzia, ci insegnano che l’amore è il Sentimento con la S maiuscola, quel motore d’ogni cosa che ti coinvolge e stravolge, che ti monopolizza la vita e il cervello, stordendoti e costringendoti a pensare all’altrə senza soluzione di continuità. Ci insegnano che, senza questi fuochi di passione, quell’amore non è autentico, perciò avanti lə prossimə “che problemi non ha” (Raffa, a te lo perdoniamo!). Al contempo, però, ci raccontano pure la favoletta dell’amarsi come il primo giorno, che è un paragone impossibile e irrealistico. L’amore ha poi un’infinità di declinazioni socialmente preconfezionate: deve sconvolgerti, ma stabilizzarti, è sesso romantico, ma con le tinte del porno, è perdona tutto, ma non fidarti troppo, è amo solo te, vita mia, ma ti cornifico da dieci anni. Se non riesci a mantenere una storia d’amore – o addirittura non ne hai mai avuta una – sentimentalmente sei rottə e non funzioni come dovresti.

La festività di San Valentino per come la conosciamo oggi incarna tutto questo: è la sagra delle smancerie, dei gesti plateali e delle esternazioni amorose declamate a comando, che in fin dei conti ci raccontano più i modi in cui di fatto non amiamo. “Ti amo, pucci pucci”, ma dal 15 febbraio ognunə torna a rintanarsi nel proprio recondito individualismo. Dunque, il “Ti amo” che mi hai detto ieri sera di fronte a una costosissima bottiglia di champagne che valore ha oggi?

San Valentino, "lascia che ci pensi io" è il "ti amo" scritto coi petali di rosa - ROSE 2 - Gay.it
CI PENSO IO

Con l’abbagliante capacità di sintesi che la contraddistingue, nel saggio Dare la vita, Michela Murgia scrive che “un ‘Ci penso io’, nel mio vocabolario degli affetti, vale più di cento ‘Ti amo’”. Dacché mondo è mondo, e dacché San Valentino è San Valentino, “Ti amo” è la dichiarazione d’amore universale per eccellenza, è il passe-partout che tante porte apre – ma tante porte chiude. Sul momento ti avvolge, rinsalda il senso di vicinanza e fa bene all’anima. Ma all’atto pratico, quando il 14 febbraio sei in coda da ore alle Poste – e preferiresti leggerti un libro al parco o andare alle terme – a che ti serve?

Amare una persona significa esserci nella sua quotidianità, contribuire concretamente al suo benessere psico-fisico – e perché no, pure economico. Introdurre nelle nostre vite il “Ci penso io” non vuol dire aiutare l’altrə, un verbo che sembra sottintendere la forza salvifica dell’aiutante e l’inferiorità senza speranza dell’aiutatə, ma significa dare una mano. “Ci penso io” aggiunge quella parte di affidabilità pragmatica che al “Ti amo” manca – forse perché, come ogni locuzione strausata, si è consumata fra le tante labbra su cui è passata, perdendo carica sentimentale, ma soprattutto concretezza. “Ci penso io” è un invito a spartire le rogne o le noiose incombenze della quotidianità, è un incoraggiamento a delegare, è il “Ti amo” scritto coi petali di rosa che ci piace ricevere in qualsiasi giorno dell’anno, e non solo il 14 febbraio.

 

Che poi, una relazione sentimentale non è mica la panacea di ogni male. In modo subdolo, anche se crediamo non ce ne importi, il San Valentino ci fa sentire in difetto se non stiamo con qualcunə perché è una festività prettamente aggregativa che respinge la solitudine come se fosse il male assoluto. Se non ho unə partner, non sono ineluttabilmente solə, ma in quel momento della vita, per i motivi più diversi e personali, sto per conto mio. A me, ci penso io. Spostare il focus dalla solitudine, condizione che spesso attrae a sé pietismi o vittimismi, all’indipendenza dello stare per conto proprio, che suggerisce invece agentività, può essere d’aiuto in giornate come il 14 febbraio, dove il condizionamento sociale, seppur di striscio, un po’ ci sfiora.

Comunque sia, da primo vescovo di Terni e martire, oggi il povero San Valentino altro non è che il santo patrono della glicemia e delle vendite post-natalizie. Anche quest’anno è arrivato coi suoi gadget e ninnoli ad affollare i supermercati e i social, dove fioccano consigli su cosa fare o regalare quella sera: cena romantica per due, rose rosse fuori stagione o cuscini con deliri grafici stampati sopra? Come con ogni festa comandata, spetta a noi scegliere in che modo gestirlo. Tenendo a mente le parole di Murgia, a San Valentino sarebbe bello optare per una semplice promessa. Niente bacetti, cuori di pezza o nontiscordardimé, ma solo mazzi di cipensoioaté. Tra i gambi, un bigliettino scarabocchiato dice:

A San Valentino – o la prossima settimana – vado io a fare la spesa e ti preparo io la cena dopo dieci ore di lavoro. Ti pago io la rata dell’affitto. Te le sbrigo io, quelle beghe burocratiche che rimandi da un mese perché al solo pensiero ti viene l’orticaria. Quest’anno, a San Valentino, lascia che ci pensi io.

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