Nelle intenzioni, il libro postumo di Michela Murgia doveva essere un libro sulla GPA. Ma chiunque si sia mai avvicinato alla pagina bianca sa come vanno le cose: la scrittura è generativa. Unə parte con un’idea e lei, invece, poi lə porta da un’altra parte. Spariglia le carte, come si suol dire, oppure semplicemente cambia il percorso pur mantenendo salda la meta. È scrivendo che si produce una verità nuova, che si comprende davvero cosa si vuole dire.
Dare la vita, che esce oggi (9 gennaio) per Rizzoli, a distanza di cinque mesi dalla scomparsa della sua autrice, doveva racchiudere il suo pensiero sulla Gestazione per Altri e invece «è diventato un libro più profondo sul senso della genitorialità e della parentela»: lo aveva dichiarato ad Ansa Alessandro Giammei, scrittore, insegnante di italianistica a Yale nonché figlio d’anima di Michela Murgia. In questo pamphlet, dal tono quasi testamentario, l’intellettuale sarda ha racchiuso negli ultimi mesi della sua vita le basi di un ragionamento che l’hanno portata a immaginare e costruire (Murgia pensava, ma poi passava alla pratica, sempre) una famiglia diversa, che possa prescindere dai sigilli della legge e dai legami imposti dal sangue. Un nucleo aperto che lei ha voluto definire queer, sancendone l’unione simbolica attraverso un rito matrimoniale alternativo e affollato, che si è ribellato alla coppia e che ha scelto come totem la rana, l’animale transizionale per eccellenza. Così, partendo dalla sua esperienza e dall’etimologia della queerness, Murgia continua a fare politica attiva, a costruire pratiche collettive e imbastire esercizi del pensiero, che forse comprenderemo fino in fondo solo tra tanti, tantissimi anni. Per un mondo di relazioni e non di ruoli, per un mondo dove nessunə «dovrà più fingere di essere chi non è».
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