Roma come Londra? Non proprio. Anzi, per niente. In questi giorni due coppie omosessuali, una in Italia e l’altra nel Regno Unito, hanno visto respinte le loro richieste di vedere riconosciuti i loro matrimoni contratti in altre nazioni. Antonio Garullo e Mario Ottocento sono la prima coppia di gay italiani sposatisi all’estero, per la precisione a l’Aja il 1° giugno 2002. Quando avevano chiesto al loro comune di residenza, Latina, di trascrivere l’atto nei loro registri di stato civile il comune aveva detto di no e i due erano ricorsi alle vie legali. Dopo una prima sentenza a loro sfavorevole, un anno fa, Antonio e Mario, assistiti dall’avvocato Alessandro Mariani, erano ricorsi in appello ma il 13 luglio anche la Corte giudicante di Roma ha confermato la sentenza di primo grado. Nella sentenza si legge che «La trascrizione del matrimonio non può considerarsi un atto dovuto» e dunque «il rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile del comune di Latina è legittimo». Per i giudici «se è vero che in una larga parte degli Stati europei ha dato ingresso nei rispettivi ordinamenti a forme di riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso che manifestino il consenso ad un progetto di vita comune, solo in alcuni di essi hanno sancito il diritto al matrimonio indipendentemente dal sesso dei nubendi». «È corretto ritenere che mancando a livello europeo ed extraeuropeo una disciplina sostanziale comune e cogente delle unioni di tipo coniugale tra persone dello stesso sesso» si legge nella sentenza stata emessa dal collegio giudicante (Giovambattista Pucci, Pietro Negris Cosattini e Alida Montaldi) «non si possa prescindere dall’esaminare la corrispondenza dei modelli normativi liberamente scelti nei vari Stati agli istituti dell’ordinamento nazionale, non potendo attuarsi con lo strumento dei reclamanti, il riconoscimento di nuove realtà di tipo familiare che deve trovare ingresso nella sede e nelle forme istituzionali proprie». Per la coppia gay di Latina dunque adesso solo la possibilità, volendo, di ricorrere alla Corte Europea dei diritti dell’uomo per cercare di far valere i loro diritti.
Nel Regno Unito era stata una coppia lesbica a ricorrere in appello. Celia Kitzinger e Sue Wilkinson, sposatesi a Vancouver, in Canada, nel 2003 chiedevano alle autorità britanniche di riconoscerle formalmente come coppia sposata. I giudici dell’Alta Corte di Londra hanno rigettato la loro richiesta, spiegando che comunque le due donne possono vedere riconosciuta la loro unione tramite il Civil Partnership Act, ovvero la legge per le Unioni Civili che è entrata in vigore nel dicembre 2005. Il presidente dell’High Court Family Division Mark Potter ha spiegato tuttavia che, sebbene non classificabili come “matrimoni”, le unioni stabili e durature tra persone dello stesso sesso non sono “in alcun modo inferiori” a quelle tra un uomo e una donna, tant’è che la legge inglese riconosce loro diritti che sono praticamente identici a quelli delle coppie eterosessuali sposate.
Queste due sentenze, simili pur nelle loro peculiarità, fanno emergere l’abissale divario che separa i contesti nelle quali sono state emesse. Per lo Stato Italiano Antonio e Mario, che pur vivono insieme da anni, non solo non sono sposati ma non sono niente, sono due illustri sconosciuti e non godono di nessuno dei diritti (e doveri) che vengono attribuiti alle coppie etero sposate, in nessun ambito. Celia e Sue per le autorità inglesi non potranno dirsi “unite in matrimonio” ma la nazione nella quale vivono, lavorano e pagano le tasse le riconosce come entità familiare, estendendo a loro gli stessi diritti e le stesse protezioni legali che sono concesse alle coppie eterosessuali sposate. È una bella differenza, come dalla notte al giorno. E in Italia, da questo punto di vista, è ancora buio pesto. (Roberto Taddeucci)
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