FIRENZE. Nella sala d’Arme di Palazzo Vecchio, a Firenze, fino al 4 febbraio 2001, sarà visibile una gran parte dell’opera fotografica del barone Wilhelm von Gloeden, artista tedesco "italianato" da una vita trascorsa in Sicilia.
La storia comincia nel 1877, quando un bellissimo ragazzo tedesco, in convalescenza dopo un lungo soggiorno in sanatorio, arriva a Taormina, per far visita ad un amico. Lascerà definitivamente la città siciliana nel 1931, anno della sua morte.
Il ragazzo impara la fotografia, da due amici Cupi e Bruno e, contestualmente, scopre i bruni corpi dei ragazzi siciliani. Il "Barone" come è chiamato in città, è un ragazzo fra i ragazzi e non desta nessuno scandalo la sua continua richiesta di fotografare i coetanei o i loro fratelli più giovani, nudi, alla foggia degli apolli dorici o del Bacco del Caravaggio. Fotografa anche qualche ragazza e qualche donna, ma sono poche e molto vestite.
Nelle immagini non compare il distacco del cronista, né il romanticismo del ritrattista, bensì una prepotente sensualità del corpo maschile, membro compreso. I siciliani di von Gloeden sono sfacciati ragazzotti di paese, probabilmente affatto belli, ma con in tasca la moneta dorata della gioventù. E nelle loro facce da bell’Antonio rimane a mezzo un’espressione ribalda e sguaiata, quasi come se in gola avessero una risataccia soffocata a stento.
Nella timorata Sicilia di inizio secolo l’artista spoglia i virgulti migliori, in posa in un vicolo, sul mare o in un fienile, fermandoli in un’aura di puro desiderio. Anche il sesso maschile è ben mostrato, anche se mai ostentato, come oggetto di ammirazione e non di concupiscenza.
L’opera di von Gloeden, per la prima volta, colora lo sguardo di un nuovo significato. La fotografia codifica una nuova immagine, quella dell’erotismo omosessuale.
Della vita privata del tedesco di Taormina si è molto sparlato. Amico di Matilde Serao e di Gabriele d’Annunzio, la sua casa – atelier in piazza san Domenico ospita artisti di passaggio quali Anatole France. Si dice ospiti anche simpatiche orgette con i giovani occasionali modelli, ma nessuno si scandalizza. Del resto nume tutelare della dimora è la sorella Sofia Raab, segaligna e zitella, che secondo i ben pensanti, dovrebbe essere stata anche il severo guardiano della virtù del fratello.
Come guardiano è stata abbastanza permissiva. Tanto da benedire il compagno di vita del fratello Pancrazio Bucini, detto il Moro, che, successivamente, quale erede e detentore di tutta l’opera dell’artista, subì, sotto il regime fascista, un processo per detenzione di pubblicazioni pornografiche.
Naturale viene il parallelo con un altro grande fotografo affascinato dal nudo maschile, quale fu Robert Mapplethorpe. Ma le differenze sono molte. La predilezione per gli interni di Mapplethorpe, l’oscenità asettica delle sue provocazioni a fronte delle immagini solari e morbide di von Gloeden. Gli stessi autoritratti dei due artisti: il barone interpreta Gesù, forte del suo ovale angelico, mentre Mapplethorpe, a dire il vero molto più interessato ad immortalare se stesso, si infila stivaloni sadomaso, si trucca da demonio, da sciantosa, inserisce oggettini nel proprio orifizio posteriore.
Manca nell’artista tedesco quel concetto mefitico del sesso che ha reso grande l’opera del "maledetto" americano.
di Paola Faggioli
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