CHE COLPA HANNO GLI ETERO?

Gay e psicanalisi: un rapporto troppo stretto. Ne parla anche Carlo Verdone nel suo ultimo film. Dove le relazioni omosex sembrano andare meglio di quelle matrimoniali. Una novità nel cinema italiano.

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Gay e analisi. Un rapporto stretto, strettissimo. Un sondaggio Ispes/Arcigay del 1989 ha stimato che circa il 90% degli omosessuali ricorre almeno una volta nella vita alla terapia analitica, spesso ‘costretto’ dalle famiglie dopo un coming out di solito non volontario. E dire che solo da dieci anni, il 1 gennaio del 1993, l’Organizzazione Mondiale della Sanità non considera più l’omosessualità una malattia trattando come patologica solo quella egodistonica (di chi non si accetta).

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In passato i grandi psicologi non sono stati certo teneri con la questione gay: Alfred Adler ne ‘Il problema dell’omosessualità’ del 1917 considera l’omosessualità un fattore legato alle nevrosi individuali, la definisce «una perversione non curabile: sarebbe come guarire un uomo codardo per farlo diventare coraggioso». Se Freud era più tollerante, considerando le pulsioni gay come «fenomeno naturale» e gli esseri umani «intrinsecamente bisessuali» ci hanno pensato i neofreudiani e psicologi di destra come Bergler a rincarare la dose e sostenere la tesi della malattia. Ricordiamo inoltre che nel famoso congresso di sessuologia a Sanremo del 1972 i cattolici sostenevano ancora la tesi della lobotomizzazione e la terapia a riflessi condizionati (scosse elettriche!) per ‘curare’ i gay.
La psicoanalisi classica e non, veduta, riveduta e rivissuta, torna di moda anche al cinema: dal norvegese ‘Elling’ al plumbeo ‘Spider’ di Cronenberg, da ‘La casa dei matti’ di Konchalovsky Gran Premio della Giuria a Venezia a ‘Prendimi l’anima’ di Roberto Faenza che racconta la storia d’amore sul filo della nevrosi tra la paziente Sabina Spielrein e il ‘colosso’ della psicanalisi Karl Jung.

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Nel frattempo è uscita nelle sale la nuova commedia di Carlo Verdone ‘Ma che colpa abbiamo noi‘ e ha già fatto sfracelli d’incassi, totalizzando lo scorso weekend più di un milione e mezzo di euro, scalzando ‘Natale sul Nilo’ e ‘Il mio grosso grasso matrimonio greco’. Dopo tre anni da ‘C’era un cinese in coma’ Verdone firma una commedia corale bonaria ma non semplicistica, affettuosa e a tratti divertente (soprattutto nella prima parte) su un gruppo di otto pazienti che durante una seduta in terapia di gruppo assistono alla silenziosa dipartita della psicologa ottantaduenne junghiana Loiacono e decidono di proseguire le seduta in una sorta di autogestione collettiva con improvvisate riunioni a rotazione nelle proprie abitazioni. Il campionario è variamente assortito e da manuale: c’è Flavia (Margherita Buy, già nevrotica nel verdoniano ‘Maledetto il giorno che t’ho incontrato’), insicura e maniaca delle scarpe col tacco che colleziona con inopinato feticismo; l’instabile Ernesto (Antonio Catania), che riesce a dormire solo su treni in movimento ed è in crisi con la moglie; la matura vamp Gabriella (Lucia Sardo), una sorta di Donatella Versace ante litteram, platinata e mangiatrice di uomini; l’obeso Alfredo (Luciano Gubinelli), orchestrale e fanatico religioso; la squattrinata Chiara (Anita Caprioli), studentessa bulimica infatuata di uno sconosciuto via chat; il techno-isterico Marco (Stefano Pesce) segretamente innamorato di Chiara; il depresso Gegè (lo stesso Verdone) con padre oppressivo e fidanzata modella che pensa solo al fitness; infine Luca (Max Amato, attore prevalentemente teatrale), esperto d’arte nevrotico e gay.

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Ed è proprio quest’ultimo personaggio che il regista tratta con particolare accuratezza e sensibilità: forse timoroso di cadere nello stereotipo stridente, non lo caratterizza né lamentoso né vittima né effemminato, ma con una certa predisposizione ad essere leader all’interno del gruppo e una sagace ironia («non è il caso di usare sempre la stessa parola, ‘omosessualità’, facciamola finita!»). Carrierista colto e sfortunato in amore, ha sempre storie problematiche con uomini sposati e una passione per le saune gay (purtroppo, come al solito, rappresentate in una scena come luogo sordido e mesto). In definitiva, comunque, un personaggio positivo e neanche molto problematico rispetto agli amici etero, chi più e chi meno in crisi col proprio partner.
Lo sguardo del regista è comprensivo e un po’ malinconico, il messaggio di fondo è ‘l’unione fa la forza (morale)’, basta condividere i problemi per trovare quel po’ di consolazione che serve per tirare avanti.
«Il film è un inno all’amicizia, allo stare insieme, al parlare, cosa sempre più difficile in questo periodo in cui imperano il telefonino, la televisione, l’e-mail» ha dichiarato l’autore. Peccato però per il finale un po’ abborracciato con una gravidanza davvero improbabile.
In definitiva un Verdone più riflessivo e assolutorio, in cui le poche gag davvero comiche (le foto alla fidanzata legata sulle rotaie, gli imbarazzati pasti col padre imprenditore) sembrano quasi stonare un po’.
Comunque ciascuno spettatore può agevolmente trovare un lato dei personaggi in cui potersi identificare, senza bisogno di tirar fuori l’inevitabile ‘madre dominante e padre assente’ a cui i gay sembrano essere condannati da un certo dogmatismo psicologico.

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