MILANO – Occhio al video. C’è la spi(n)a accesa? Visto che la pellicola è ormai destinata ad andare in pensione (la Kodak nel 2013 non la produrrà più) e la qualità del mezzo video è sempre più alta e spesso indistinguibile dai tradizionali formati 16 e 35 mm, il futuro del cinema è ormai segnato dal nastro digitale. Ce lo ricorda il 17° Festival Internazionale di Cinema Gaylesbico di Milano, che sabato sera ha presentato in concorso ‘Ma vraie vie à Rouen‘ (‘La mia vera vita à Rouen’) di Olivier Ducastel e Jacques Martineau, autori de ‘La strada di Félix’ (‘Drôle de Félix’) vincitore nell’edizione 2001. Girato interamente in soggettiva, è quasi un video-diario del liceale Etienne, ripreso con la sua nuova e fiammante handycam, regalo di compleanno (ma l’idea è la stessa di ‘Guy’ di Michael Lindsay-Hogg). Il protagonista riprende la mamma, inizialmente sospettosa dell’invasione nel privato della telecamerina e poi divertita dall’idea di recitare; riprende la nonna, che racconta della sparizione di François che ha a che fare con un precipizio; riprende il suo carissimo amico Ludo che ama in silenzio, osservandolo; riprende il professore di geografia per cui prova una certa attrazione e, grazie a una definizione da rivista enigmistica su un affluente africano di quattro lettere che inizia per ‘U’, diventa il nuovo compagno della madre; riprende il corteo contro il Fronte Nazionale inneggiante alla caparbietà del leader comunista Hue (il momento più toccante del film perché il più vero, quasi un flash postmoderno di ‘free cinema’); si riprende mentre si racconta allo specchio, mentre riceve in regalo le lame professionali utili alla sua grande passione, il pattinaggio; viene ripreso mentre si allena sul ghiaccio, commette un errore nella gara nazionale, arriva secondo. Riprende se stesso e il suo amante con cui forse ha finalmente perso la verginità, ma solo dopo l’amore, quando il volto è disteso.
Partendo dalle teorie realiste sul cinéma-vérité, da Dziga Vertov a Jean Rouch, Ducastel e Martineau fanno un esperimento non molto riuscito sull’ammodernamento della ‘glorificazione dell’istante’ all’alba della sofisticata tecnologia DV, accennando alla tematica gay solo nel finale e, con un pudore a tratti eccessivo, indugiano in riprese da anonimo ‘filmino delle vacanze’ per infondere più naturalezza e spontaneità alla storia ottenendo l’effetto boomerang di sfibrarne l’esile sceneggiatura. Chiunque tentasse con la propria videocamera di fare un film così cadrebbe nella trappola della qualità del suono che Ducastel e Martineau, professionisti qual sono, rielaborano perfettamente, probabilmente in postproduzione, senza sbavature. Né si può negare la bravura della magnifica Ariane Ascaride, scricciolo proletario e indomito, moglie del Ken Loach della Provenza, l’impegnato Robert Guédiguian, ormai emblema di quel cinema sociale che in Italia riescono a fare solo più Ferrario, Chiesa e pochi altri, sperimentatori del cinema digitale ma in campo documentaristico.
E proprio in questi giorni, a Cannes il grande Lars Von Trier ha gettato le basi nel futuro del cinema Dogma, cioè il ‘Cinema Fusionale’, che a partire dal mezzo video selfdirected (cioè ognuno è operatore del proprio film) mescola arti diverse, come ha fatto lui stesso nel suo nuovo film ‘U’, meglio noto come ‘Dogville’, primo capitolo di una trilogia sull’America (gli altri due saranno ‘S’ e ‘A’), un cinema fortemente simbolico con scenografie essenziali, in cui la fusione avviene tra cinema e teatro (cioè MTV: movie-theater video) e la macchina da presa viene controllata dal regista stesso attraverso un’elaborata imbragatura che sembra la corazza armata di Seagourney Weaver in ‘Alien 2’.
In Spagna è arrivato anche il primo film Dogma gay, ‘Giorni di matrimonio – Dogma #30‘ di Juan Pinzas, passato in anteprima al Festival Gay di Torino, quasi un Festen in chiave omosessuale. In un grande albergo spagnolo non si celebra un compleanno ma un fastoso matrimonio in cui però lo sposo cocainomane tenta di farsi il suocero in bagno e disdegna la sposa ormonata mentre una chiaroveggente prevede tutto con un semplice giro di carte. Sempre al Festival Gay di Milano, una manifestazione interessante ma che purtroppo soffre della sindrome dell'”eterno secondo” ed è spesso costretta per motivi di budget a riproporre molti titoli (forse troppi) già passati al Togay, si è vista anche l’opera prima ‘Do I love you?’ di Lisa Gornich, simpatica e ciarliera regista inglese, che ha realizzato un piccolo saggio sul lesbismo girato in Betacam a bassissimo costo. Tra strizzatine d’occhio a Woody Allen e un ritmo spigliato e brioso, si capisce quanto debba essere problematico per una donna lesbica interrogarsi sulle certezze del proprio orientamento sessuale: la protagonista, ossia la stessa Gornich, si chiede come mai la sua relazione è in crisi, tenta di tornare con gli ex (maschi) ma non li capisce, risponde alle domande dei genitori progressisti (“ma come fate sesso voi lesbiche, è una cosa che ci incuriosisce”), ha un’amica che è etero ma va con le donne solo perché ha una rubrica lesbica su una rivista, riflette in bicicletta sul proprio futuro. Stilisticamente privo di interesse, è però curioso come trattato sociologico (viene da pensare che al cinema, a parte poche eccezioni come ‘Go fish’, il senso della comunità lesbica sia sempre meno rappresentato e le donne gay si rifugino sempre più nel privato). Alla domanda “il film ti è servito come analisi?” la Gornich, presente in sala, ha risposto: “è costato molto meno di una terapia analitica”.
Il video ha però i suoi limiti oggettivi, bisogna tener presente che le videocamere più moderne arrivano a una risoluzione di 800.000 pixel estendibili a 1.200.000 grazie a procedimenti onerosi mentre la pellicola, da sé, può contare su immagini costituite dall’equivalente di 4 milioni di pixel. Alla bruttezza di riprese scarne, piatte, mal illuminate bisogna sopperire in qualche modo, curando magari le scenografie o la sceneggiatura, o si codifica un’altra estetica, come hanno fatto i dogmatici. Oppure si fa un documentario. Molti registi non l’hanno ancora capito.
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