L’idea era ambiziosa: coniugare al cinema eros esplicito e sentimento, hard e melò, sesso pulsionale e dolcezza affettiva, un po’ come accade nell’americano Shortbus pur evitando l’esposizione genitale. Questo l’assunto del paratelevisivo L’amore è imperfetto, mal riuscita opera prima di Francesca Muci, documentarista salentina specializzata – e chi l’avrebbe detto – in temi religiosi, autrice dell’omonimo romanzo uscito a inizio anno per Piemme. Le vicende amorose di cui si parla sono quelle della vitale Elena, editor trentacinquenne passionale e confusionaria, in due momenti chiave della sua vita sentimentale, nel 2005 e nel 2012, la cui alternanza temporale dà la scansione narrativa del film. Sette anni fa viveva con l’amica del cuore Roberta ed era fidanzata con un fascinoso fotografo, Marco, potenziale principe azzurro rivelatosi poi gay, da cui ebbe una bambina affidata a lui perché Elena non voleva più sapere di entrambi. Al giorno d’oggi, a causa di un banale incidente con un motorino, Elena conosce la diciottenne Adriana, ribelle e viziata, con cui inizia una strana relazione dettata soprattutto dall’invadenza irruente di quest’ultima, e nel contempo il cinquantenne francese Ettore, signorile e flatteur, separato dalla moglie che si è tenuta i tre figli.
Ambientato in una Bari non folcloristica e incorniciato da due belle canzoni di Tiziano Ferro ormai classiche, L’amore è una cosa semplice e TVM (acronimo di "Ti Voglio Male"), è un improbabile mix di fiction melodrammatica da prima serata Rai, intrisa di cliché privi di alcun approfondimento psicologico, ed eros patinato alla Tinto Brass, con almeno una scena assolutamente scult: Elena si penetra con l’iPhone tenendo un piede sulla tastiera del pianoforte mentre Adriana le sibila al telefono un inascoltabile "Voglio parlare dentro di te!". E che dire di un imbarazzante e impacciato blowjob en plein air (ma la regista non osa fino in fondo, mostrando pochissimo) o del francese un po’ cochon che prima la respinge dal letto e mentre lei si lava le parti intime la obbliga a "mantenere il suo odore" e rientrare in modo spiccio nel talamo bollente? La visione della sessualità lesbica è quanto mai consumistica e ancorata a un’idea di trasgressione provocatoria di stile pubblicitario ferma agli anni Ottanta – quello con Adriana sembra più un provocatorio gioco naif che un vero coinvolgimento emotivo – mentre la scoperta da parte di Marco della propria omosessualità si riduce all’accarezzamento della mano di un modello a una cena romantica e una scena molto glam in cui si intravedono i due maschi nudi in piedi, montata in alternanza con una copulazione etero (pare che all’editing sia stata tagliata una scena di sesso gay "molto forte"). Tanto più che non si capisce nemmeno se poi la bambina viene cresciuta solo da Marco o anche dal fidanzato, quasi a lanciare il sasso e nascondere la mano, buttarla sull’idea felice dell’amore libero indipendentemente dai condizionamenti culturali e poi evitare ogni possibile rappresentazione "concreta" di nuova famiglia come se non si volesse urtare un possibile pubblico più conservatore e moralista.
È più interessante il cast, con una simpatica Anna Foglietta che nel mal scritto ruolo di Elena fa quel che può, o il belloccio da fotoromanzo Giulio Berruti, perlomeno un leggiadro vedere (su Vanity Fair si definisce un "maschio alfa purosangue da cui una donna, se le piace il gioco duro, qualche morso se lo può aspettare"). La scena strombazzata dello strip "alla nove settimane e mezzo" davanti a Elena non ha nulla di intrigante e si riduce a un nudo integrale posteriore (Berruti ha recitato svestito anche nell’ultimo Greenaway, Goltzius & The Pelican Company). Anche gli attori non protagonisti Lorena Cacciatore (Adriana) e il godardiano Bruno Wolkowitch (Ettore) sono prigionieri di ruoli piccoli piccoli ma se la cavano con dignità.
L’amore sarà anche imperfetto ma qui di perfetto sembra davvero che ci siano solo le due splendide canzoni di Tiziano Ferro.
Si può anche non vedere.