Sornione, stropicciato, finto tenero, sexy come pochi costantemente arrazzato (sullo schermo): Stephen Dorff, che pochi ricordano transex in “Ho sparato a Andy Warhol” – era la trasparente Candy Darling – e qualcuno in più nel fumettistico “Blade”, è la rivelazione del nuovo film di Sofia Coppola “Somewhere”, presentato in concorso alla 67esima Mostra di Venezia. Un accattivante gioiellino minimal d’autore, a carburazione lenta, che non aggiunge molto al cinema raffinato della figlia d’arte ex fidanzata di Tarantino (che come presidente di giuria non è per nulla a disagio per il conflitto d’interessi) ma sorprende per la regia controllata e una certa grazia d’insieme per nulla scontata. Siamo dalle parti di “Lost in Translation” in versione più autobiografica, con al posto del Park Hyatt di Tokyo il celebre hotel losangelino “Chateau Marmont”, dove si sballò per l’ultima volta John Belushi e dove Liz Taylor accompagnò l’attore gay Montgomery Clift dopo il brutto incidente in auto.
C’è anche una coppia dalla vistosa differenza d’età composta però questa volta da padre e figlia: il cinedivo donnaiolo Johnny Marco, celebrity ciondolante e annoiata nel lusso indotto dal successo planetario, tra Ferrari roboanti e pratici elicotteri/taxi, baby escort a nastro e puntatine a Las Vegas, si rende conto dello spreco esistenziale dall’apparizione ‘responsabilizzante’ della vispa figlia biondina undicenne Cleo (Elle Fanning, delicatissima, bimba prodigio sorella minore della più celebre Dakota), aspirante danzatrice su ghiaccio perennemente ‘parcheggiata’ dalla ex moglie di Johnny. Sorvoliamo sull’imbarazzante scena trash della premiazione dei Telegatti a Milano con apparizioni horror di Simona Ventura, Nino Frassica e persino Valeria Marini sculettante (l’Italia ci fa una figura pessima: persino la Ferrari a un certo punto pianta il protagonista!).
La piccola Cleo, quasi una versione speculare dell’eccessiva “Maria Antonietta” cine-ritratta dalla Coppola nel 2006, sembra più matura del suo papà bamboccione, inerte ai privilegi della fama e quasi narcolettico nel trascinare un’esistenza dorata superficiale e inconsistente, magnificamente interpretato da Stephen Dorff che tempo fa dichiarò: “Da quando ero piccolo, ho sempre amato osservare le donne truccarsi e agghindarsi. Pensavo che sarei diventato gay o asessuato. Ma poi ho iniziato a desiderare le donne davvero tanto”. Quasi come il suo Johnny Marco (alter ego?) che non disdegna un giro di lenzuola che sia uno – nella vita Dorff ha avuto fidanzate top quali Pamela Anderson e Juliette Lewis – trattenendosi solo davanti a un bellissimo massaggiatore new age, virile e muscoloso, che inizia a ‘lavorarlo’ su un lettino – è la scena più queer vista finora al Lido e comincia davvero come un porno della Falcon – ma lo spaventa quando si spoglia integralmente davanti a lui (“Non mi interessa: impacchetta tutto!”).
Scena magnifica: alcuni truccatori coprono il volto di Johnny con un colloso impacco biancastro che gli copre occhi e orecchie ma lascia libere le narici. Deve attendere quaranta minuti. La macchina da presa indugia sulla maschera immobile. Subito dopo, il divo si osserva allo specchio invecchiato di quarant’anni, cadente, quasi senza capelli, con pelle grinzosa e smorta. Solo gli occhi brillano ancora.
Uno sguardo pasoliniano e vagamente queer si percepisce nell’intenso “L’amore buio” di Antonio Capuano sul doppio destino di Ciro (Gabriele Agrio, assai cinegenico), un ragazzino proletario rinchiuso nel carcere di Nisida e un’adolescente altoborghese (Irene De Angelis, adeguata) che si riprende lentamente dal trauma di una brutale violenza di gruppo in cui è stato coinvolto anche Ciro. Privilegiando toni accorati e con profonda sensibilità, a Capuano non interessano le giustificazioni psicologiche né il rapporto a distanza tra i protagonisti (non sapremo mai che cosa si dicono i protagonisti nelle lettere che si scambiano), quanto offrire allo spettatore spunti e suggestioni visive, spesso affascinanti, su due ritorni alla vita, in apparenza opposti, che dicono molto sulle difficoltà del recupero sociale in casi drammatici come questo.
Capuano filma i corpi seminudi dei detenuti con palpitante partecipazione, abbondando in cromatismi dorati, mentre l’universo borghese è rappresentato con toni opachi, decolorando la scena e riducendo i contrasti (non c’è nessuno che filmi Napoli con una visceralità autentica come questo regista). La psicologa del carcere è un’ottima Valeria Golino, imbruttita per quanto si può imbruttire una bellezza simile.
Ultima apparizione per il compianto Corso Salani, bravissimo nel piccolo ruolo del papà della protagonista che si sente inadeguato a comprendere le necessità della figlia.
“L’amore buio” è stato presentato alle Giornate degli Autori ma è uscito in contemporanea nelle sale tradizionali. Non perdetevelo.
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