Tutto mi rende vulnerabile: intervista alla cantautrice Birthhh

Dalle colline toscane alla Grande Mela, l'artista queer ci racconta un nuovo inizio.

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@woabirthhh
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Alice riceve la sua prima chitarra a sei anni. È solo un passatempo da strimpellare per distrarsi durante quei lunghi pomeriggi a casa della nonna, tra le campagne toscane. Finché un giorno non diventa qualcosa di più: scrivere canzoni dà voce ad un linguaggio nuovo, che accompagnato da un laptop e un microfono tra le quattro mura della sua cameretta, l’accompagnerà fino da grande. Oggi è Birthhh, cantautrice classe 1996 che scandisce le tappe della propria crescita con i suoi album: dall’esordio nel 2016 con Born in The Woods al secondo capitolo “WHOA” nel 2020.

Il 1 Settembre è atterrato sulla terra Moonlanded, terzo album con Carrosello Records, che ripercorre un altro grande inizio, a partire dallo spazio circostante. Dopo aver vissuto tutta la sua vita in Italia, nel Marzo 2020 e con lo scoppio della pandemia globale, Birthhh si è ritrovata bloccata a Brooklyn. Il brusco distacco, la lontananza dai propri cari, e le incertezze di quel tetro periodo, potevano trovare una via di fuga solo attraverso la musica: Moonlanded è diventato il veicolo per restare connessa al proprio passato e al contempo coltivare nuove radici.

 

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Prodotto e scritto a quattro mani insieme a London O’Connor, direttamente dal  “The Moonbase” (così hanno rinominato il loro studio), l’album unisce novità e tradizione, dando una forma a tutte alle consapevolezze di una ragazza che diventa adulta: che sia abituarsi ad una nuova casa, innamorarsi, o trovare potere nelle proprie fragilità.

Me ne ha parlato meglio in una chiacchierata via Zoom, tra Milano e New York.

Cosa distingue Moonlanded, dai tuoi precedenti album, e dove si colloca nella tua formazione personale e artistica?

Io in generale una volta finito un disco non lo ascolto più. Sono satura. Sia il primo disco che il secondo penso di averli riascoltati per la prima volta dall’uscita, tre o quattro mesi fa. Born in The Woods l’ho scritto durante il periodo del liceo, e mi facevo domande su tutto: la mia sessualità, il mio posto del mondo, la mia salute mentale. Era davvero la prima volta che mi chiedessi: come sto? E la risposta fu quell’album lì. Il secondo album era già più adulto: le domande non sono tanto “come sto?” ma più “cosa voglio fare nella vita?”. Moonlanded, credo che risponda un po’ a tutte queste domande.  In questo album sono riuscita a compattarle, e trovare un po’ più di solidità. Come anche nella vita privata. Penso che tutti gli album siano un po’ un riflesso di come mi sento in quel momento, sono diari molto fedeli di specifiche fasi della mia vita. La musica ha questo modo così semplice di bipassare il cervello e cogliere subito la profondità. Poter provare tutto questo con la consapevolezza dei miei 27 anni, ripercorrendo quello che ho fatto e vissuto, è molto carino.

La separazione da casa genera emozioni imprevedibili fra loro. Lo so perché ci son passato anche io: non a New York, ma a Milano, sempre durante il 2020. Anche io, come te, dalle campagne alla metropoli. È strano perché il tuo cuore si trova in una strada di mezzo: tra la casa che hai sempre conosciuto, e quella che stai conoscendo. Per me è elettrizzante ma anche terrificante. Com’è stato per te maneggiare queste emozioni?

C’è un contrasto forte tra la famiglia con cui sono cresciuta che la famiglia che mi sto creando, con la mia compagnia Storm, ma anche con gli amici. Le emozioni sono riuscita a maneggiarle proprio grazie alla musica. La canzone oltre che diario, mi ha aiutata a dialogare con me stessa. È stata un po’ una sessione di terapia fatta a casa, con un disco che la riporta para para. Senza di quello non so come l’avrei affrontato quel periodo. In questo modo sapevo che le mie emozioni avevano uno spazio nel mondo. Anche perché la società in cui viviamo non ci abitua a valorizzare quello che proviamo. Noi siamo persone che sentono cose, e queste cose che sentiamo non devono per forza uscire tutte fuori, ma se sapessimo accettarle di più, vivremmo tutti con meno vergogna.

Ascoltavo un’intervista tra la cantautrice Blondeshell e Maya Hawke e parlavano del concetto di vulnerabilità, e come il termine sia un po’ utilizzato a sproposito. Perché significa tante cose diverse per ognuno. Cosa ti fa sentire vulnerabile e come si riflette nella musica?

Mi trovo molto d’accordo con questo spunto. Penso tipo a quando le persone dicono che siamo tutti troppo sensibili, forse dovremmo iniziare ad accettare che siamo anche molto diversi tra di noi, e ci sono cose che fanno male a me che magari a te non toccano, e potremmo essere un po’ più comprensivi da questo punto di vista. È una scelta mia personale che ho fatto, anche scrivendo questo disco: mi sono detta ‘okay, sto sentendo tante cose intense, accettiamo questo momento’. Ma ad oggi io vivo tutto con estrema vulnerabilità: mi rende vulnerabile andare a mangiare la pizza fuori qui, perché se magari è una pizza buona fatta da italiani mi ricorda casa. Mi rende vulnerabile tenere per mano la mia ragazza per strada, perché non ti viene neanche in mente che possano esserci dei problemi – e questa zona di Brooklyn è parecchio queer, e in generale è così in quasi tutta New York. Mi rende vulnerabile avere conversazioni intense con i miei amici, dimostrare amore e affetto, provare ad amare incondizionatamente senza paura del rifiuto.

In ‘Jello’ parli di ‘amare all’italiana’. In che senso?

Mi rendo conto che culturalmente non abbiamo avuto chissà che grandi esempi romantici – magari anche per colpa del patriarcato. Però percepisco un calore particolare in noi italiani. Qualcosa di cui non mi sono resa conto finché non sono andata a vivere fuori, e ho capito che non c’è ovunque. Amare all’italiana per me è la cosa più romantica e sognatrice che esiste. È un po’ da film, e anche le love stories hollywoodiane secondo me un po’ si ispirano a quella cosa lì. Mi viene in mente Benigni –che tra l’altro viene dallo stesso paesino toscano dove sono cresciuta io – e film come La Vita è Bella. A parte i temi pesanti e tragici, c’è un amore sognante e potente in quel film. È un amore non circoscritto solo alla sfera romantica, ma a tutte le persone a cui tieni – che siano i tuoi amici o anche il tuo gatto.

Ti sei anche innamorata. C’è sempre questo cliché che quando l’artista soffre scrive meglio, ma a me pare un po’ una romanticizzazione del dolore che non fa bene. Come ha influito l’amore sulla tua scrittura?

Beh, tantissimo. Se non ci fosse quella parte lì, non solo sarebbe un disco diverso, ma penso sarei anche in un luogo diverso. Sempre parlando di famiglie scelte, no? Mi rendo conto che i grandi passi della mia vita spesso li ho fatti per amore, e questo è uno di quei casi. Ti dà quella dose di dopamina in più che mi fa dire: vabbè, dai, facciamolo, proviamoci. Se stiamo insieme e lavoriamo in squadra, per me c’è un grande motore.

Spesso quando si parla di artisti queer, la parola queer per alcunə diventa ingombrante. Come dire le canzoni queer, o il pop queer. A te come fa sentire che la tua musica venisse associata alla tua sessualità?

A me la parola queer piace tanto. Capisco che ad alcunə non piaccia  ma perlomeno stiamo dando un nome a qualcosa che esce dalla ‘normalità’, e nel mio mondo ideale la ‘normalità’ è queer. Penso che oggi – in particolare in Italia – abbiamo tanto bisogno di rappresentazione, e penso sia importantissimo che una persona queer abbia anche nell’arte un modo per riconoscersi. Certo che se poi questa parola ci confina in un’altra scatola ancora o chiude altre porte, allora lì mi dispiacerebbe. Io penso di fare musica queer perché sono una persona queer, la mia queerness è una parte molto importante di me, e molte canzoni d’amore che scrivo parlano di altre persone queer. Non voglio fare musica solo per un pubblico queer, ma voglio che le persone queer si risentano e vedano in quello che faccio. Vorrebbe dire che perlomeno sono riuscita a riflettere la mia esperienza in modo vero.

Cosa vorresti lasciare alle persone che ti ascoltano?

Spero di poter far vedere che c’è spazio per tutte le sensazioni che proviamo. Che non c’è un’emozione, o meglio un feeling – parola che non esiste in italiano, ma che racchiude emozione e sensazione insieme – meno valido di altri. Dovremmo perdonarci di più, amarci di più, perché queste emozioni sono spunti del nostro subconscio per crescere e prestare più attenzione. L’arte ha la capacità di prendere qualsiasi tipo di emozione e trasformarla in bellezza. Sarei felice che le persone possano riconoscersi in questo.

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