Nuova tendenza al Togay: niente più crapule e debosce, audaci arrembaggi carnali in claustrofobici hard-club o ariosi cruising, pornostar presenti anche fisicamente in carne e sesso; bensì un ritorno alla dimensione intima, alle dinamiche di coppia, alle relazioni sentimentali. Insomma, l’omosessualità diventa ‘amosessualità’. Lo testimoniano vari film presentati alla 27esima affollata edizione di Da Sodoma a Hollywood in corso fino a mercoledì al cinema Massimo di Torino: il comune denominatore è la difficoltà di schermare l’unione dalle tentazioni esterne, come nel discreto dramma americano d’atmosfera August, in cui il ritorno del fascinoso ex Troy durante una torrida estate losangelina mina il rapporto domestico tra Jonathan e il suo fidanzato argentino Raul che per ottenere la green card ha sposato un’amica etero del suo ragazzo.
Oppure nel più riuscito e intimista Weekend del britannico Andrew Haigh, in cui una conoscenza occasionale in un locale gay dà l’abbrivio a un intenso fine settimana di passione in cui si confrontano due modi diversi di intendere una relazione, quella più romantica dai presupposti fondativi dell’introverso Russell e quella più cinica e disillusa dello sfuggente Glen in cui emerge fortemente il disagio di non percepire quella accondiscendenza sociale data per scontata nelle coppie etero. È invece la dipendenza dalla droga il terzo incomodo nell’animoso Keep The Lights On del pluripremiato cineasta americano Ira Sachs sulla travagliata storia d’amore fra il danese Erik, documentarista di
successo, interpretato dall’espressivo Thure Lindhardt di Fratellanza, e Paul, avvocato crack-dipendente (Zachary Booth). Ispirato alla reale vicenda sentimentale del regista – non presente a Torino perché neopapà di due gemelli – con l’agente letterario Bill Clegg, autore del romanzo Ritratto di un tossico da giovane (Einaudi), ha un suo impatto sullo spettatore per asprezza e rigore anche se il rischio di maledettismo sbuca da ogni inquadratura (e non mancano le ingenuità, come la telefonata alla dottoressa per avere l’esito del test sull’Aids).
Pudore e fremiti amorosi caratterizzano invece l’artigianale cileno Otra pelicula de amor di Edwin Oyarce in cui ci vuole addirittura un’ora e venti – con applauso del pubblico – affinché i due protagonisti, un ventenne appassionato di fotografia con madre alcolizzata e il suo ritrovato amico d’infanzia, riescano finalmente a baciarsi dopo estenuanti ciondolamenti fra spiagge e case fatiscenti. Ma in realtà si tratta di un bacio d’addio e un commiato amicale. Per tutte e quattro le storie il distacco, la fuga, l’allontanamento fisico o metaforico – che sia Madrid, l’Oregon, un paradiso artificiale indotto o un paese remoto – sembra la soluzione più pratica e praticata, espressione di un disincanto e timore di coinvolgimento molto contemporanei.
Il messaggio più positivo arriva però dall’intenso My Brother the Devil, emozionante action inglese diretto da Sally El Hosaini (mano ferma alla regia ma anche una sensibilità tutta femminile che dà una marcia in più al film), in cui la scoperta della propria omosessualità dello spacciatore egiziano Rashid (James Floyd), a due terzi del film, grazie all’improvviso innamoramento per il fotografo gay che gli offre un lavoro e la possibilità di uscire dall’ambiente criminale, garantirà la stessa chance, ad alto prezzo, al fratello minore Mo (Fady Elsayed). Per una volta l’essere gay in un ambiente ad alto tasso di omofobia, quello delle gang arabo-cockney, è la chiave per la "normalizzazione" sociale del protagonista e l’occhio attento della valente regista riesce a evitare il sensazionalismo voyeur immergendo la svolta omosex in un credibile contesto realista, con scene adrenaliniche ad alta tensione, sia dinamica che emotiva.
Assume tinte pulp, invece, il dramma cubano vintage Verde Verde del quasi ottantenne Enrique Pineda Barent in cui l’ardua seduzione di un medico della marina militare per il macho Carlos che non accetta la propria parte omosessuale degenera nel grand-guignol ("ognuno uccide ciò che ama", imperativamente) con tanto di evirazione e amputazione della lingua. Taverne fumose, onirismi esasperati, inserti grafico-erotici: vecchio stile tra Genet e Fassbinder in versione naif, inevitabilmente datato. Nessun applauso e qualche fischio alla proiezione pomeridiana.
Un’irresistibile Kathleen Turner rende spassosa l’equilibrata commedia The Perfect Family di Anne Renton in cui l’ex-"signora ammazzatutti" indossa le sobrie vesti della mamma ipercattolica Eileen in corsa per l’ambito titolo di “cattolica dell’anno” ma quando l’arcivescovo deve conoscere la sua famiglia lei fa di tutto per non svelare il passato da alcolista del marito, il figlio divorziato, la figlia incinta in procinto di sposarsi con una donna. Con un tono garbato, senza scadere nel trash o nel kitsch, né essere militante e anticlericale a tutti i costi, vanta qualche battuta cult (l’anziana che non comprende la campagna contro l’adozione agli omosessuali e domanda smarrita "chi vuole adottare i gay?") dimostrando un certo attaccamento ai personaggi che non vengono giudicati né sbeffeggiati. Strepitoso l’attore gay 78enne Richard Chamberlain nuovamente in abito talare come nel leggendario Uccelli di Rovo che gli diede la celebrità. Pubblico entusiasta.
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