“Silent Youth”, quanto è difficile dirsi “ti amo”

Nello scarnificato dramma intimista di Diemo Kemmesies visto al Torino Film Festival due ragazzi non sanno come comunicare la reciproca attrazione. Sentimenti repressi anche nel corto "Rufus Stone".

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Mentre il cinema straight lancia la tendenza dell’eros spinto (Lars Von Trier ha appena terminato di girare in Germania il già chiacchieratissimo Nymphomaniac sul cui set il protagonista Shia Labeouf ha trovato la sua nuova fiamma, la diciannovenne Mia Goth) e anche da noi fa parlare – ma non incassa – il controverso E la chiamano estate con Isabella Ferrari nature, quello propriamente queer, un tempo luogo di elezione per trasgressioni e libertinaggio, si rivela sempre più sentimentale.

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Ne è la riprova un piccolo film tedesco intimista presentato al Torino Film Festival, Silent Youth di Diemo Kemmesies, sull’incontro casuale a Berlino – si sfiorano una mano passeggiando per strada – di due giovani introversi, Kirill e Marlo (Josef Mattes e Martin Bruchmann). Il primo è di origini russe e ha un occhio pesto a causa di un pestaggio avvenuto a Mosca, e inizialmente è sospettoso per il fatto che Marlo lo pedini silenziosamente. Costui studia ingegneria a Lubecca, ed è ospite da un’amica. Di loro non sappiamo molto di più, a parte che Kirill ha un bambino di pochi mesi da una donna che vede raramente e Marlo non ha mai avuto rapporti con un uomo. Iniziano a frequentarsi e a fare lunghe e silenziose passeggiate insieme. Dopo un’ora di film, con sollievo degli spettatori, finalmente si baciano sotto la doccia. Il tema della difficoltà di comunicare, l’impaccio goffo nell"esprimere le proprie emozioni, il senso di marcato disagio sensoriale nei confronti del mondo esterno, vengono tradotti in immagini attraverso sguardi imbarazzati, estenuanti silenzi coperti dal brusio urbano, lunghe scene contemplative.

Il regista sostiene di aver «voluto raccontare l’incontro tra due persone frenate da una sorta di autismo dei sentimenti» anche se il suo minimalismo è talmente scarnificato da sfiorare a tratti l’inconsistenza. Gli abbiamo fatto alcune domande ma Kemmesies si è rivelato laconico come i suoi personaggi: ci ha spiegato che il film è costato solo 6000 euro, che ha ispirazione autobiografica e gli attori sono stati trovati con un semplice casting di qualche mese. E la cosa migliore del film sono proprio i loro volti innocenti e delicati, il loro candore desideroso di tenerezze. Pubblico freddo.

Anche nell’interessante cortometraggio che ha preceduto il film tedesco, l’inglese Rufus Stone di Josh Appignanesi, un sentimento represso la fa da padrona: l’anziano Rufus torna dopo cinquant’anni nel villaggio natio in campagna e rincontra l’amico Flip con cui aveva avuto una relazione che causò la fuga a Londra di Rufus a causa dell’ostracismo dei compaesani e delle cinghiate del padre. Rufus è diventato un uomo di successo nel mondo della moda mentre Flip è rimasto in paese ad accudire la madre malata. Rimpianti e rimorsi porteranno a una tragica conclusione. Il messaggio è pessimista se non nichilista – l"omofobia dei paesani è la stessa di mezzo secolo prima, meglio distruggere ciò chè è foriero di ricordi tristi – e lo stile piuttosto originale utilizza ralenti e immagini flou per ricostruire in lirici flashback un’adolescenza solo apparentemente gioiosa.

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In Festa Mobile Classics abbiamo infine apprezzato l’intelligente operazione di mettere a confronto tre diverse versioni de La voce umana, tratte dall’omonimo capolavoro immortale di Jean Cocteau, forse la più celebre conversazione telefonica della storia del cinema, atto disperato di una donna innamorata ma lasciata dal suo uomo in un estremo tentativo, furente e allucinato, di venire a patti con lui e soprattutto col lutto sentimentale: la prima è un inedito riadattamento gay portoghese, O que arde cura (Ciò che brucia guarisce) di João Rui Guerra da Mata, in cui il regista João Pedro Rodrigues (O fantasma) parla al telefono con l’uomo che l’ha abbandonato mentre un incendio (vero: è il 25 agosto 1988) devasta il quartiere del Chiado, nella parte alta di Lisbona. La metafora è chiara: fiamme tangibili e d’amore che bruciano nel profondo, rese sullo schermo con curiose sovrapposizioni d"immagini virate sul rosso, veri servizi televisivi sul disastro e tocchi vintage anni ’80 quali un Pacman portatile e finestre/schermi tv come nei video musicali di quell’epoca.

La seconda è il superclassico firmato da Roberto Rossellini, primo capitolo del film L’amore composto da due episodi (l’altro fu diretto da Federico Fellini e si intitola Il miracolo), con una straordinaria Anna Magnani, passionale e dirompente. La terza è una poco vista versione televisiva del 1966 di Ted Kotcheff con Ingrid Bergman, molto british e piuttosto composta. La migliore? Quella di Rossellini, tutta nervi e pathos, con una Magnani davvero inarrivabile.

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