La moda ha sempre cercato di evitare di far parte della politica, ma a quanto pare la politica ha sempre cercato di far parte della moda. Ma perché? In maniera molto elementare potrei tirare fuori il leggendario detto che gli opposti si attraggono, ma la risposta risulterebbe sommaria, oltreché sbagliata, perché moda e politica secondo me non sono opposti, anzi.
Resta però una domanda: la moda è politica o la politica è di moda? Secondo i nuovi estremisti di destra la moda è importante per la sua capacità di nascondere messaggi e codici che solo chi ci lavora dentro è capace di riconoscere. Secondo la moda, invece, la politica può essere un pretesto per lanciare nuovi trend, o almeno così era.
Insomma moda e politica sono come due amanti separati che vivono ancora nella stessa casa, ma qualcosa ancora arde nel cuore di entrambi, colpa l’irrazionalità messa in atto più o meno da tutti.
Qualora non ve ne foste accorti, il tempo degli anfibi lucidati a nuovo, la camicia nera e i capelli rasati a zero è finito.
Oggi l’estrema destra veste casual, mostrandosi quasi remissiva, adottando nuovi codici visivi che passano anche e soprattutto dall’abbigliamento e da ciò che decidiamo di indossare.
Si dirà: un modo di attenuare l’aspetto da pericolosi sociopatici estremisti e sembrare più ragionevoli e politicamente credibili, pronti a raccogliere consensi più ampio.
Le nuove linee guida invitano i sostenitori ad adottare un look più rilassato anche nelle manifestazioni pubbliche.
Jeff Schoep, che per più di vent’anni ha guidato il Movimento Nazionale Socialista americano, ha dichiarato al New York Times che i suoi giorni da neonazista sono finiti. Credici.
In cerca di un riposizionamento personale, prende oggi le distanze dalle idee che ha sostenuto a lungo, cliché.
I nazional socialisti di Schoep sono stati probabilmente gli ultimi a indossare un severo total black. Stilisticamente, poco più di un revival del fascismo. Con loro, il filone dei neofascisti brutti e cattivi si è concluso. COME NO.
Durante gli ultimi venti anni la scelta stilistica dell’estrema destra si è fatta più moderata e mainstream e alcuni brand sono stati presi come riferimento.
Vi ricordate di Lonsdale, che nei primi anni 2000 era destinato agli eredi della cultura skinhead, appassionati di musica hardcore e promotori di un sommario razzismo? Se non ve lo ricordate forse è meglio.
La moda partì dall’Olanda, seguita da Belgio e Germania. In poco tempo l’associazione fra il brand e una presunta mentalità xenofoba si era già consolidato.
Il brand non fu scelto per motivazioni particolari, ma per un’esigenza molto pratica: il logo, se indossato sotto una camicia aperta, lasciava in vista le sole lettere NSDA, parziale sigla del partito nazista agli ordini di Hitler. Giuro, non è un caso.
La conseguente campagna “Lonsdale loves all colours” fu un modo per rompere il legame con i militanti, ma l’immaginario era ormai saturo, oltreché compromesso.
Anche dopo il boom di Lonsdale, molti adolescenti continuarono a vestire Lonsdale: forse volevano imitare l’abbigliamento dei loro amici più grandi, ai loro occhi fari dello stile. Come veri follower, ma molto prima di Instagram. L’eco dell’aggressività associata al brand inoltre funzionava da scudo contro gli episodi di bullismo. Ah il potere della moda.
Un caso più recente ha riguardato l’iconica polo Fred Perry, in una colorazione specifica: nera con il logo ricamato in giallo. Un capo scelto dai Proud Boys, guidati da Gavin McInnes. Leader del movimento e giornalista (fra le altre cose co-founder di Vice), Gavin è stato bannato da molti social network per i suoi inviti all’uso della violenza.(menomale)
Evidentemente non tutti i boys sanno che Fred Perry storicamente si è sempre schierato a favore di una serena convivenza tra sottoculture diverse.
L’azienda eredita il nome del tennista Fred Perry, vincitore del torneo di Wimbledon e discendente della classe operaia, che con la sua presenza smorzò l’elitarismo piuttosto tipico di questo sport.
Per limitare i danni al percepito del brand, Fred Perry ha interrotto la vendita e la produzione della polo, provando ad allontanarsi da un’associazione di significati indesiderata.
In questo nuovo paradigma, i gruppi più pericolosi sono quelli più innocui in apparenza. Si vestono con coloratissime camicie hawaiane e si fanno chiamare Boogaloo Bois.
Li abbiamo conosciuti meglio nel 2020, quando i toni delle elezioni americane hanno fatto da acceleratore per gli episodi di violenza.
A unire questo gruppo di debosciati è l’odio per il diverso, per il non-bianco e non-americano, ma ce l’hanno a morte anche con il governo. Si mimetizzano nelle manifestazioni di altri gruppi in attesa che lo scontro si accenda e la confusione permetta di fare danni.
La scelta della aloha shirt, per tutti sinonimo di pace e tolleranza, deriva dall’assonanza fra Boogaloo e Big Iuau, tradizionale festa Hawaiana a base di poke, ukulele e folli danze. I rasserenanti pattern floreali scelti dai Boogaloo Bois sono però la cosa più distante dal desiderio sovversivo che abita la loro mente.
Il movimento usa anche una serie di icone giocose e metaforiche, prese in prestito dall’immaginario visivo di internet. Cuciti sulle loro camicie o incollati alle loro armi si trovano unicorni psichedelici, palme, clown, igloo e svariati meme: messaggi in codice per potersi riconoscere, simboli dissonanti e inattesi.
Un’immagine coordinata in apparenza fuori brief, che usa forme e colori di altre bolle culturali, e quindi destabilizzante.
Come detto sopra, chi indossa un abito indossa un codice: una camicia può rapidamente diventare una divisa, che unisce e consolida, come un vero strumento di propaganda. La forza della ripetizione visiva e il desiderio di appartenenza sociale seducono e rendono complice anche chi non lo sarebbe stato.
L’ala più estrema della destra ha capito che andava spezzato il legame con il passato, sposando un immaginario più soft, per avere nuova credibilità pubblica oppure per confondersi meglio nella folla.
Così silenziosamente, mentre tutto diventa sempre più conservatore, restano irrazionali i movimenti religiosi radicalizzati, è irrazionale la politica che nega e ostacola i diritti individuali, è irrazionale un potere che nessuno sa bene dove risiede e chi veramente lo esercita.
Tutto è come sospeso, affidato al controllo di chi detiene le chiavi del progresso tecnologico, sempre più controllore e sempre meno al servizio di chi dovrebbe usufruire delle facilitazioni che mette a disposizione.
Se non reagisce la moda, che è una creatività a più diretto contatto con la persona in un mondo irreversibilmente globalizzato, chi o cosa altro potrebbe sensibilizzare verso questa urgenza?
Credo che la moda possa farcela se abbandonasse quella richiesta di legittimazione che la frena di fronte alla cultura. Anche perché quando i brand vengono presi involontariamente a riferimento dai gruppi estremisti, il loro percepito oscilla. In questi casi una smentita non è sufficiente, si deve prendere pubblicamente una posizione.
Non è eccezionale che la moda possa raccontare tutto questo. Gli abiti sono idee, ma sono anche gesti, pensieri, parole opere e omissioni. E quando rappresentano delle omissioni servono solo a riempire i guardaroba. E omettere è vergognoso.
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