Da piccolo mia madre mi vestiva da principe verde. Sì, verde. Non chiedetevi né chiedetemi da quale favola ecologista ante litteram fosse venuto fuori ma il mio era un abito confezionato in velluto verde pisello, con tanto di piuma: verde e una calzamaglia pistacchio. Praticamente ero una specie di baccello che doveva ogni volta subire l’umiliazione di giustificare il colore del suo abito rispetto al più ben noto collega azzurro il quale passava di favola in favola a svegliare principesse addormentate e orfanelle morte circondate da orde di nani vogliosi.
– "Ma da che sei vestito?".
– "Da principe verde".
E lo scetticismo si disegnava sul volto di una qualche compagnetta di classe agghindata da maledetta damina del ‘700 che sorseggiava da un bicchiere di plastica bianca un mix di Coca Cola e Fanta che di lì a dieci anni sarebbe stata sostituita da un sex on the beach.
– "Mai sentito di un principe verde".
Dopo di che si voltava per proseguire lanciandosi nel ballo della scopa con uno dei non meno di 12 Zorro presenti alla festa.
Questo costume ovviamente non andò in pensione (erano gli anni dell’austerità, della crisi petrolifera) finché non divenne tanto aderente da farmi sembrare un ballerino di fila di Fantastico e ogni anno, puntualmente, dovevo giustificare quel colore tanto bizzarro. Ho provato a spacciarlo di volta in volta per quello di un alieno, di un ramarro, del mostro della palude e di lesbica afflitta da costipazione intestinale, ma le reazioni erano sempre le stesse: schifo. Si capisce quindi da dove venga la mia avversione per il carnevale. Quindi figurarsi con che entusiasmo stia vivendo il successo sempre più dilagante della mascherata made in USA di Halloween.
In effetti passando per il quartiere ultraromano di San Lorenzo, presidio secolare della coda alla vaccinara, fa uno strano effetto vedere i suoi bar tappezzati di gagliardetti della Roma spruzzati di ragnatele spray e scheletri di cartone che reggono tra le dita ossute il menu delle birre. Ma ormai è definitivo e conclamato: Halloween si è infilato di prepotenza nel nostro calendario delle festività prendendo a colpi di fianchi la ricorrenza dei morti, troppo lugubre e mesta per una società sempre meno riflessiva (ovviamente il fatto è anche dovuto all’aspetto ludico della ricorrenza perché col cavolo che avremmo introdotto con altrettanto entusiasmo il mese di digiuno del Ramadan).
Per alcuni nostalgici dei collettivi anni ’70 non è altro che un esempio dell’imperialismo culturale americano e della sudditanza provinciale di cui soffre l’Italia a partire dai tempi in cui venivano lanciati dai carri armati degli alleati gomme da masticare, calze e cioccolata sostituendo alla dittatura nazifascista quella più subdola di Mc Donald’s. Per altri invece è un esempio della globalizzazione che va accettata ed integrata alle tradizioni locali più radicate (sono anni ormai che alle elementari oltre ai presepi sagomati con il traforo e alle uova di Pasqua di cartapesta si sono aggiunte anche le zucche porta candele).
Per tanti altri ancora, invece, è un’occasione in più per poter giustificare una serata in discoteca. In effetti ben pochi centrano lo spirito della ricorrenza interpretando coerentemente il gusto gotico e crepuscolare di Halloween ma del resto, come dare loro torto. È qualcosa che per genetica non ci appartiene e il risultato ha sempre un che di fuori luogo come quando capita di vedere gli australiani che festeggiano il Natale sulle spiagge assolate di Bondi Beach invece che intorno ad un camino in una casa circondata dalla neve. E le feste gay non sono esentate da questo travisamento, dando semmai a molti di noi un’occasione in più, oltre al canonico carnevale, per poterci vestire da succinti super eroi (che si diversificano dal look lascivo di tutti gli altri fine settimana solo perché quella sera c’è l’aggiunta di una maschera disegnata con la matita nera intorno agli occhi) o da battone dark ispirate all’esuberante Curtney Love post party in casa Manson.
di Insy Loan ad alcuni meglio noto come Alessandro Michetti
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