Il primo impulso dopo aver visto la prima puntata del mediocre Caravaggio per la regia di Angelo Longoni andato in onda ieri sera Raiuno è stato uno solo: rivedere subito l’omonimo, lirico, erotico e visivamente potente film di Jarman (ah, quel «Tu sei il mio San Giovanni e questo è il nostro deserto» mormorato al modello seminudo, a cui segue la dissonante scena con la macchina da scrivere nella vasca da bagno).
Che noia invece queste serie di prevedibili scene televisive lunghe e dilatate, che sciatteria la poca
verosimiglianza storica – la Roma di fine ‘500 descritta come un borgo vociante pieno di giocolieri! – che brutta la fotografia di maniera, seppur di Vittorio Storaro, quasi monocromatica e umbratile dalla costante ocra. E che barba questo Caravaggio reso un etero convinto (Alessio Boni è troppo "patinato" e il ruolo è semplificato ai minimi termini) mentre s’impegna a letto con la delicata Fillide, la cortigiana protetta da Ranuccio Tommasoni che Merisi sfida a pallacorda tra frizzi e lazzi come se fosse un moderno impiegato nel dopolavoro al circolo del tennis.
L’amore travolgente per l’artista del siracusano Mario Minniti (Paolo Briguglia, l’unico adeguato in tutto il cast) pare a senso unico, non ricambiato se non da una casta amicizia: le uniche scene vagamente accennanti a questa passione totalizzante sono trattenute carezze di Minniti a Michelangelo Merisi che riposa placido su un letto dopo un’operazione alla gamba. E anche l’omosessualità stessa di Minniti è resa intuibile solo attraverso le nevrosi effeminate di quando viene ritratto con ramarro in mano nel celebre dipinto.
L’unica parvenza di omosessualità è quella attribuita al sordido pittore Peterzano, presso la cui bottega viene
insegnata a Caravaggio la tecnica del colore e l’amore per le Sacre Scritture, accusato di pedofilia nei confronti dei giovani allievi (sospetto infamante: come dire che Caravaggio ha avuto tendenze gay per questo motivo). Il cardinale Del Monte, poi, ha ben poca personalità pur essendo fondamentale nella vicenda del pittore, visto che gli garantì la svolta della sua carriera offrendogli protezione a Palazzo Firenze (lo interpreta senza convinzione il pur bravo Jordi Mollà, bisex amante di Bardem in Segunda Piel). L’amorevole Costanza Colonna è invece una scanzonata Elena Sofia Ricci che ne fa una dama borghesotta senza spessore, e il suo volto riconoscibile per lo spot di una celebre compagnia telefonica certo non aiuta.
Anche se ci riserviamo di dare un giudizio su solo metà dell’opera, è indubbio che questa fiction abbia dei seri
problemi, cara tv di Stato, e uno su tutti: è costata ben 11 milioni di euro ma non li dimostra affatto, e sullo schermo non filtra lo sforzo produttivo indubbiamente rilevante, nemmeno nelle scene di massa assai convenzionali e stereotipate quali un bordello con clienti costantemente ghignanti (altro che le allarmanti maschere en travesti di Jarman) oppure una ridicola e raffazzonata ghigliottina in piazza alla Maria Antonietta. Per cercare di rappresentare la decadenza morale e oggettiva della capitale tra ‘500 e ‘600 non mancano assurde divagazioni decontestualizzate come il cadavere trovato sul greto che Caravaggio osserva per imparare a ‘rappresentare la morte’.
Insomma, non c’è atmosfera, non c’è il tormento del grande artista, non c’è nemmeno un guizzo di regia o sceneggiatura che vada al di là del già visto mille volte in queste riduzioni televisive. E poi aver reso sfacciatamente etero un grande artista gay – si segue la discutibile tesi del critico d’arte cattolico Maurizio Calvesi – è semplicemente uno scippo storico. Ridateci Jarman.
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